L’Unione europea non ha altra scelta. Donald Trump vuole chiudere un nuovo accordo commerciale con Bruxelles entro le elezioni di novembre o imporrà il 25% dei dazi sulle auto europee. Il presidente degli Stati Uniti ha bisogno di un’agile vittoria economica dopo aver pareggiato la guerra dei dazi con la Cina. La “Fase 1” firmata con Pechino il 15 gennaio si è rivelato un patto deludente. Gli Stati Uniti venderanno 200 miliardi di beni in più ai cinesi nei prossimi due anni ma Pechino non rinuncerà alla pratica scorretta di concedere ingenti sussidi di Stato alle sue aziende. Ovvero il motivo per cui Trump aveva scatenato la guerra commerciale lunga 18 mesi. Ora tocca all’Unione Europea. Per farlo applicherà lo stesso capitolo della sua autobiografia, L’arte di fare affari: trattare con la forza facendo leva su ciò di cui la controparte non può fare a meno per sopravvivere. In questo caso l’esportazione dell’auto. Finora i dazi sull’automotive hanno causato il rallentamento dell’economia tedesca e di riflesso quella italiana, perché molte aziende del nostro Paese forniscono semilavorati e prodotti intermedi delle macchine finalizzate in Germania. Tradotto: se Trump colpirà le auto tedesche la botta arriverà anche a noi. Il presidente Usa ha minacciato molte volte di imporre i dazi, senza mai attuarli. Ma ora che in ballo c’è la sua rielezione potrebbe succedere davvero.
Il problema è che l’Unione Europea non è la Cina. Dazi del 25% sull’auto potrebbero dare la mazzata finale al settore manifatturiero europeo che si trova sull’orlo della recessione, mai così male dalla fine del 2012. Un declino iniziato nel 2018 proprio per la minor richiesta di auto dagli Stati Uniti. Bruxelles non avrebbe la forza di reggere un colpo così doloroso e non tutti gli Stati dell’Unione condividono la stessa linea da tenere. Se presi insieme, nel 2018 i Paesi Ue sono stati l’area commerciale in cui gli Stati Uniti hanno esportato di più e la seconda da cui hanno importato più beni. I più colpiti dai dazi sarebbero Germania, Paesi Bassi e Francia. Non a caso Trump ha fatto capire che altri beni potrebbero subire dazi, per esempio del 100% sui vini, formaggi e borse francesi.
L’unica arma che in queste ore Bruxelles ha provato ad agitare è stata la web tax. Francia e Italia hanno approvato nelle loro leggi di Bilancio un aumento dell’imposta per le multinazionali del Web come Amazon, Google e Facebook che pagano tasse irrisorie scegliendo lo Stato Ue con la domiciliazione fiscale più conveniente. Il governo giallorosso ha fatto entrare in vigore dal 1 gennaio un’imposta del 3% per i Big tech con un fatturato globale di 750 milioni di euro e almeno 5,5 miliodi di ricavi Ma la vera riscossione per Roma arriverà il prossimo anno. Un modo per prendere tempo nei negoziati con Washington.
«La web tax è discriminatoria. Se imporranno una tassa sulle nostre società, allora prenderemo in considerazione le imposte sulle case automobilistiche» ha ribadito il segretario al Tesoro americano, Steven Mnuchin. «L’Italia punta a un accordo globale per la webtax, ma in assenza di questo accordo scatterà la tassazione italiana a partire dal febbraio 2021» ha risposto il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Ma non tutti gli Stati Ue sono della stessa opinione. La minaccia di dazi sulle auto europee e «altri beni» come ha fatto intendere Trump senza entrare nello specifico, fanno paura. La sensazione è che lo scontro web tax contro dazi sull’automotive sia come attaccare con una fionda chi è pronto a lanciarti un missile. Quanti leader masochisti ci sono nell’Ue?
Uno potrebbe essere il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire che in un colloquio con Mnuchin a Davos aveva detto «ho rifiutato qualsiasi marcia indietro o sospensione della tassa. Il Parlamento francese l’ha votata e resta in vigore. L’alternativa a un compromesso costruttivo è la guerra commerciale. Una volta dichiarata, è molto difficile uscirne». Parole forti smorzate poi da dichiarazioni più posate di La Maire che ha accettato di ritardare l’applicazione dell’imposta per trovare una soluzione globale, grazie alla mediazione dell’Ocse.
Sarà un compito difficile quello di Ursula Von der Leyen che ha avuto già un faccia a faccia con Trump a Davos, durante il World Economic Forum. «Se non otterremo qualcosa, dovrò agire» ha detto il presidente degli Stati Uniti in un’intervista alla Cnbc. In questa trattativa si vedrà il valore negoziale della neo presidente della Commissione europea. Finora l’Unione ha trattato sempre con aree commerciali più piccole e ha vinto quasi sempre la sua battaglia con negoziati estenuanti basati sui minimi dettagli che accontentassero tutti i suoi componenti. È stato così per l’accordo Ceta con il Canada, o quello con Giappone e Singapore. Negoziati durati anni e vinti, o almeno non persi, grazie a regolamenti dettagliati. Lo stesso schema che Bruxelles intende attuare con il Regno Unito. Non potrà fare lo stesso con gli Stati Uniti perché la battaglia non è solo commerciale, ma politica.
«È molto difficile negoziare con l’Unione Europea. Hanno approfittato del nostro Paese per molti anni», ha detto Trump in un’intervista alla Cnbc. In ballo ci sono 152 miliardi, il deficit commerciale che gli Stati Uniti hanno con l’Ue ogni anno e il presidente non ha intenzione di concedere nulla in cambio. La narrazione della Casa Bianca sarà quella di ottenere la riparazione per un torto subito dopo anni di accomodamento.
La Commissione europea non dovrà sottovalutare il problema perché nel 2021 rischiano di aggiungersi anche le tariffe del Regno Unito nel caso non riuscirà a trovare un accordo commerciale entro l’anno, come previsto dal trattato di uscita. L’unico aspetto positivo è che Londra avrebbe più da perdere perché nel 2018 il suo deficit commerciale è stato di 78 miliardi di euro (33 miliardi il valore dei beni esportati verso l’Ue contro 111 miliardi di euro importati). Per mettere più pressione all’Unione Europea quest’anno Trump negozierà anche con il Regno Unito, ma un eventuale accordo entrerà in vigore nel 2021. Von der Leyen ha detto che si risolverà tutto in poche settimane. Un ottimismo non condiviso dai funzionari statunitensi che hanno parlato di mesi di trattative. Forse più che un annuncio è sembrato un auspicio per avere un accordo rapido e indolore.