Venti di guerraPetrolio e rivoluzioni, ecco spiegate le ragioni dell’attacco americano all’Iran

Dopo l’uccisione del generale Suleimani, la tensione in tutto il Medio Oriente è destinata a salire. E gli Usa hanno sempre considerato l’Iran - più che l’Arabia Saudita - un pericolo. Ecco perché

afp

Dopo molte mosse ostili da parte iraniana (o a loro accreditate) si è avuta la risposta statunitense. Le mosse iraniane erano gli attacchi condotti con forze terze agli insediamenti militari e diplomatici statunitensi e gli attacchi alle postazioni petrolifere saudite. La risposta ad alto valore simbolico ma anche pratico degli Stati Uniti è stata ieri l’uccisione del numero tre (c’è chi dice due) del regime iraniano. Il generale Suleimani era il capo delle milizie armate e il coordinatore dell’intervento militare all’estero. Un leader politico militare con alle spalle un Paese importante, la cui uccisione dovrebbe perciò pesare più di quella di Bin Laden e di al-Baghdadi.

Ora ci si aspetta una reazione di parte iraniana. La previsione non è quella di una guerra classica, detta “simmetrica”, perché l’Iran è una potenza militare, ma decisamente molto modesta come forza area e navale in confronto alla iper-potenza statunitense. La previsione è, al contrario, di una guerra “asimmetrica”, quella fatta di rappresaglie e attentati.

Qual è la strategia statunitense nel Vicino Oriente? Impedire l’ascesa di un egemone regionale. Durante la guerra fredda, ciò si traduceva nell’impedire l’estensione della sfera d’influenza sovietica oltre a Siria, Iraq, Egitto. Oggi, nel mantenere un equilibrio fra gli attori dotati di maggior peso: Israele, Arabia Saudita, Turchia e Iran.

Proteggere i giacimenti di petrolio della provincia orientale saudita a maggioranza sciita. Non perché gli USA ne siano dipendenti. Da Riad arriva, infatti, solo il 10% delle importazioni petrolifere, ma perché l’instabilità del maggior forziere d’oro nero – il più grande giacimento al mondo è in Arabia – invierebbe scosse telluriche in tutto il pianeta.

Garantire la sicurezza agli alleati sauditi e israeliani. La loro precarietà li ha resi dipendenti dall’ombrello statunitense.

Mantenere il potere sui mari – la famigerata talassocrazia degli Anglosassoni, ieri dei britannici oggi degli statunitensi. Un potere che passa attraverso il controllo degli stretti, da cui transita l’ottanta per cento delle merci scambiate nel mondo. Nel Vicino Oriente ve ne sono ben tre: Suez (Egitto), Bab al-Mandab (Yemen), e Hormuz (che potrebbe essere messo sotto scacco dall’Iran, e da cui passa una parte cospicua del commercio di petrolio).

Questi quattro punti servono per comprendere la politica nel Vicino Oriente degli Stati Uniti. Va aggiunto che gli Stati Uniti rivaleggerebbero con l’Iran anche se la Repubblica Islamica non esistesse. La grammatica imperiale – studiata per primo da Tucidide – impone alla superpotenza di impedire l’ascesa di un egemone regionale che detti la propria agenda in un consistente spicchio di globo.

In una regione con Paesi con due stati e per il resto di proprietà private di clan regnanti – i Paesi petroliferi del Golfo sono proprietà private, Turchia e Israele sono stati – l’Iran – che non è governato da clan ma è uno stato – è convinto – che poi ci riesca è altra storia – di possedere la profondità demografica, culturale, storica, istituzionale, per plasmare i destini dei territori già nell’orbita degli imperi persiani. Imperi riesumatisi in un regime islamico.

Una risposta al quesito sul perché impedire l’ascesa di un egemone regionale, ossia sul perché gli Stati Uniti preferiscano i sauditi (un Paese musulmano centrato sui clan) agli iraniani (un’antica civiltà divenuta musulmana) potrebbe essere questa. Un Paese petrolifero – dove è facile centralizzare i proventi della materia prima e quindi usarli a scopi di potenza – può essere conservatore o rivoluzionario, ossia può usare come non usare i proventi dell’energia fossile per restare come è, oppure per espandersi politicamente all’interno (attuando una rivoluzione), oppure all’esterno (esportando una rivoluzione). L’argomentazione estesa di quanto appena asserito si trova in Jeff D. Cogan, Petro-Agression, When Oil cause war, Cambridge University Press, 2013.

Da questo punto punto di vista l’Arabia è un Paese conservatore, in quanto appunto conserva il tenore di vita delle migliaia di principi che lo governano, distribuendo parte dei ricchi proventi al resto della popolazione, mentre l’Iran ha ambizioni rivoluzionarie sia all’interno sia ed è qui che si creano le frizioni, soprattutto all’esterno.

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