La messa funebre per Kobe Bryant ha virtualmente richiamato più spettatori di quelli delle sue gesta cestistiche. Il funerale è l’unica cerimonia cui si può partecipare senza invito, certo, eppure nell’universo dei corpi non sgomitiamo per imbucarci alle esequie di estranei. Mascherare la superficialità di un dolore incomparabile rispetto a quello dei parenti, tradurre in formalità ciò che per essenza non ha forma – il nulla –, nascondere il disagio al cospetto di una disperazione capace di rovinare perfino un giorno iniziato con un cappuccino particolarmente cremoso, pronunciare la parola più artificiosa del vocabolario: “condoglianze”. Le grida, i singhiozzi, quell’organismo in decomposizione beffardamente conciato a festa, i sorrisi calibrati tra gentilezza e senso di colpa per essere sopravvissuti al defunto, l’insidiosa scelta di un outfit che esprima decoro nella compassione. In sintesi, un enorme sforzo d’immedesimazione che vorremmo dedicare soltanto ai morti che amiamo davvero.
Tuttavia sui social il lutto per gli estranei diventa festa collettiva. Almeno quando, come nel caso del fu Black Mamba, il dipartito è una celebrità. Per forza: è un trend di giornata. Sulla schiena del morto famoso non spunta un paio di ali per volarsene in cielo, ma un hashtag per librarsi nel cyberspazio. A ciascuna epoca, la resurrezione che si merita. E noi ci aggrappiamo a quella protesi ultraterrena con i nostri post, sfruttiamo la popolarità di chi non è più al mondo per dimostrare al mondo che noi invece ci siamo ancora, nonostante non se ne sia mai accorto.
Niente pioggia e vento a ridosso della tomba, niente espressioni contrite, niente abbracci ai parenti, niente guance umide: i lutti social ci affrancano dall’obbligo di consolare. Il cadavere neppure lo vediamo. Non dobbiamo fermarci qualche secondo (a volte si conta sul serio: uno, due, tre…cinque secondi è una durata ragionevole) davanti a ciò che da persona si è trasformato in cosa, una cosa in grado di inchiodarci alla certezza che prima o poi sotto il cerone ne replicheremo l’espressione svuotata di vita.
Il morto famoso, sui social, non è morto davvero. Guardalo là, continua a cantare: il filmato di Youtube che condividiamo lo prova. Questi defunti seguitano a segnare sempre gli stessi punti, quelli che li hanno resi idoli delle masse, a recitare sempre le stesse scene, che ne hanno fatto star cinematografiche, a riscrivere sempre le stesse tre frasi adatte ai cioccolatini e ai #buongiorno. Sono condannati a ripetere all’infinito quei gesti, una pena di Sisifo in mondovisione, un inferno riservato a chi osi realizzare le nostre ambizioni. Il social spezza l’ostia – la sublimazione del corpo del messia di giornata: noi ne prendiamo e ne mangiamo tutti. Facciamo a brandelli la popolarità del vip, ne strappiamo un pezzetto per noi, per la nostra vita trasformata in piano editoriale.
Quindi tocca preparare un coccodrillo, spulciare Google e Wikipedia, spiare i commiati dei nostri contatti. Fino al giorno prima magari non sapevamo nemmeno chi fosse, né evidentemente ci interessava saperlo. Ora, non tributargli l’estremo saluto ci farebbe sentire esclusi, sfigati. Dobbiamo infilare in qualche modo quel nome in un post, ne va della reputazione che ci stiamo pazientemente costruendo like dopo like. Vi sembra che la mia vita non sia abbastanza interessante? Be’, però campo nello stesso tempo di questo grande non-morto – più qualche anno. So chi è, vedete? Lo idolatravo anche io. Condivido con voi le stesse passioni, gli stessi gusti, sono dei vostri: spalleggiamoci, amiamoci, likiamoci.
Se possiamo ricordare un episodio in cui la nostra esistenza ha incrociato per un istante quella del non-morto famoso, allora siamo a cavallo. Io c’ero. Lui non c’è più, ma io c’ero, guardate qui. La sua morte diventa cassa di risonanza per quell’antico merito: esserci trovati al posto giusto nel momento giusto. Le innumerevoli possibilità combinatorie del cosmo, le leggi chimiche e fisiche, le circostanze sociali ed economiche, le condizioni atmosferiche e il sistema dei mezzi di trasporto, il gran garbuglio della statistica…ora tutto ciò si rivela come un piano razionale: l’universo mi ha premiato perché, si dà il caso, me lo meritavo: io l’ho conosciuto (e che gran persona, naturalmente), allego selfie. Un’aneddotica da saprofiti che implicitamente ci qualifica come paranoidi.