In che mani siamoL’irrilevanza dell’Italia su Iran e Libia non è colpa di Di Maio, ma naturalmente Di Maio ha peggiorato le cose

Gli americani e gli europei non ci consultano, mentre il ministro degli Esteri anziché parlare con Washington e Teheran farà ammuina ad Algeri, Tunisi e al Cairo. Le sue priorità finora sono state immigrazione e made in Italy che non coincidono con i dossier più rilevanti

AFP

Nelle ore successive allo strike americano che ha ucciso il generale Qassem Soleimani, i ministri degli Esteri e i capi di governo dei principali paesi europei sono stati impegnati in lunghe e complicate telefonate con i loro omologhi extracomunitari, in particolare con Washington, per analizzare i possibili scenari aperti dall’attacco americano. Il governo italiano, tuttavia, non ha ricevuto alcuna telefonata rilevante, a dimostrazione di come Roma sia percepita, a torto o a ragione, come una capitale secondaria in questi momenti di crisi.

Questa percezione lega il dossier iraniano a quello libico, due teatri dove l’irrilevanza di Roma è paradossale, ci spiega un diplomatico italiano: «Nel Novecento l’Italia ha costruito una credibilità internazionale che molti invidiavano, coltivando rapporti profondi con Tripoli e Teheran per proteggere al meglio i propri interessi nazionali. Anche quando, specialmente nel caso dell’Iran, questi non erano allineati con gli interessi del principale partner, cioè gli Stati Uniti. Negli ultimi mesi abbiamo invece tenuto un profilo basso su entrambi i dossier per non scontentare nessuno, ma questo implica essere superati dagli eventi, quando accadono».

Libia e Iran sono legati, e le difficoltà dell’Italia a elaborare una politica estera chiara e coerente vengono utilizzate dai paesi alleati per escludere Roma dalle decisioni che contano. Al vertice Nato di Londra dello scorso 3 dicembre si è svolto un veloce summit tra Turchia, Germania, Francia e Regno Unito per discutere di Libia, un vertice a cui Giuseppe Conte non è stato invitato nonostante la sua presenza nella capitale britannica. Dopo l’azione contro Soleimani, il segretario di Stato americano ha subito telefonato al suo omologo francese e tedesco, senza però sentire Luigi Di Maio. «Non siamo percepiti come una potenza da consultare in questi casi, anche se siamo un alleato chiave dal punto di vista militare. Politicamente non lo siamo, e quindi Pompeo chiama Berlino e non noi nonostante il contributo tedesco all’impegno americano sia imparagonabile rispetto al nostro. La questione è politica», spiega a Linkiesta Fabrizio Coticchia, professore di Scienze politiche all’università di Genova ed esperto di questioni militari.

Se l’Italia è percepita come uno Stato poco necessario in queste fasi delicate non è colpa del ministro degli Esteri attuale, che sconta senz’altro un declino cominciato prima della sua nomina. Tuttavia, le sue scelte non aiutano. Appena nominato ministro degli Esteri, Luigi Di Maio ha fatto capire quali sarebbero stati i dossier principali a cui avrebbe dedicato il suo impegno: la gestione dell’immigrazione clandestina e la promozione del made in Italy nel mondo. Il primo atto da ministro degli Esteri è stato trasferire dal ministero dello Sviluppo economico alla Farnesina la delega al commercio estero; il secondo stilare una lista di paesi considerati sicuri con cui implementare gli accordi di rimpatrio.

Significative in tal senso le sue prime visite, dettate dalle due priorità individuate. Se si escludono i due viaggi negli Stati Uniti, il primo a New York per l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e il secondo a Washington a seguito del presidente Sergio Mattarella, l’agenda del ministro è rivelatrice. Il primo novembre Luigi Di Maio vola in Marocco per discutere principalmente della ratifica da parte di Rabat dell’accordo sui rimpatri dall’Italia, firmato ma mai attuato. Poche ore dopo, il 3 novembre, va a Shanghai, per partecipare al China International Import Export e mostrare il suo sostegno alle imprese italiane che operano all’estero. «Scelte politiche legittime che tuttavia non coincidono con le priorità della nostra politica estera visto quanto accade in Medio Oriente e in Libia, due dossier che hanno subìto un’accelerazione da quando Luigi Di Maio è ministro. Non era imprevedibile, e la politica estera si costruisce lavorando a lungo termine sui dossier, non occupandosi delle crisi quando sono già esplose», commenta un diplomatico italiano.

Il leader dei Cinque stelle sta cercando di recuperare il terreno perduto, soprattutto sul dossier libico, che nei primi mesi del suo mandato è stato trascurato. Così, dopo il suo viaggio nel paese nordafricano lo scorso 17 dicembre, ha rilanciato l’iniziativa italiana, convincendo Germania, Francia e Regno Unito a organizzare una visita europea in Libia, prevista il prossimo 7 gennaio e che sarà guidata da Josep Borrell, Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione europea. In settimana Di Maio dovrebbe volare anche ad Algeri, al Cairo e a Tunisi, ma la Farnesina non ha ancora confermato l’agenda del ministro. Vista la situazione sul terreno, non è chiaro quale sia la strategia italiana, e a questo punto europea: domenica le milizie del generale Khalifa Haftar hanno attaccato l’accademia di polizia di Tripoli, causando la morte di almeno 30 cadetti. Cosa possono offrire gli europei al generale per convincerlo a fermarsi? E cosa possono dare al governo legittimo di Tripoli, sotto attacco dallo scorso aprile, più della Turchia che ha annunciato e fatto approvare dal proprio parlamento l’invio di truppe di terra?

Domande simili possono essere poste sul dossier iraniano. Domenica pomeriggio Teheran ha dichiarato che non rispetterà più i limiti sull’arricchimento dell’uranio come previsto dal JPCOA, l’accordo sul nucleare civile firmato nel 2015 con i 5 membri del Consiglio di sicurezza Onu più la Germania e l’Ue. Tuttavia non ha deciso di ritirarsi completamente dall’accordo, annunciando che continuerà a cooperare con l’agenzia internazionale dell’energia atomica e tornerà a rispettare gli impegni se gli Stati Uniti elimineranno le sanzioni.

L’Unione europea cercherà di cogliere questo spiraglio molto stretto per prendere tempo e provare a negoziare con Teheran: da qui la scelta di Josep Borrell, che ha invitato a Bruxelles il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif nei prossimi giorni. Ciò che manca, come spesso accade, è una posizione comune europea sulla questione: nonostante le pressioni americane, Francia e Italia non hanno condannato le provocazioni dell’Iran, al contrario di Londra e soprattutto di Berlino, che ha espresso la posizione più dura a livello europeo: «Gli Stati Uniti hanno reagito a una serie di provocazioni militari delle quali l’Iran è responsabile», ha detto la portavoce del governo, Ulrike Demmer. Una dichiarazione subito stigmatizzata da Teheran, che ha definito «distruttive e inappropriate» le parole di Demmer.

C’è ancora spazio per negoziare, in queste condizioni? «Le posizioni degli Stati che hanno siglato l’accordo sono diverse perché in questa situazione diversi sono gli interessi. E poi c’è un problema più generale: non abbiamo più leverage sugli iraniani, non siamo stati in grado di salvare l’accordo sul nucleare in questi mesi, cosa può proporre, concretamente, l’Europa all’Iran adesso? Non siamo più molto credibili», dice un ex diplomatico italiano con una profonda conoscenza del dossier, molto critico con le ultime decisioni europee: «A Teheran l’Unione europea ha promesso di tutto e non ha mantenuto nulla».

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