Mentre a Washington andava in onda l’ennesimo balletto di dichiarazioni sull’impeachment nei confronti di Donald Trump a proposito delle modalità del processo contro il presidente – i repubblicani vorrebbero assolverlo rapidamente senza fare un vero processo, i democratici vorrebbero sentire testimoni secondo le regole di un vero processo – ieri sera si sono fatti rumorosamente sentire gli iraniani. Terminati i funerali di Qassem Soleimani, durante i quali sono morti circa cinquanta persone, le prime vittime collaterali di una guerra che c’è e non c’è, il regime teocratico di Teheran ha lanciato un’offensiva bellica, lanciando una trentina tra missili e razzi su due basi militari nell’Iraq occidentale, ad Asad e a Erbil, dove ci sono di stanza principalmente i soldati americani ma anche quelli della coalizione internazionale, italiani compresi. Al momento non risultano vittime e i danni sono ancora da valutare.
Questi i fatti, ma subito dopo la reazione iraniana si sono succeduti tre comunicati politici, tutti diffusi sui social network (uno su Telegram e due su Twitter), da leggere e valutare con attenzione per capire verso cosa stiamo andando incontro in Medio Oriente e non solo.
«La vendetta feroce è cominciata», hanno scritto via Telegram le Guardie rivoluzionarie islamiche di Teheran, rivendicando gli attacchi missilistici iraniani come la risposta all’uccisione del loro capo Qassem Soleimani. Questo primo comunicato è di quelli che spaventano, come c’era da aspettarsi dai sanguinari pasdaran sciiti.
Alcune ore dopo è intervenuto Trump, con il solito tono sbruffone: «Va tutto bene. Dall’Iran sono stati lanciati dei missili su due basi militari in Iraq. Stiamo cercando di valutare vittime e danni, ma finora tutto a posto. Abbiamo di gran lunga l’apparato militare più potente e meglio equipaggiato del mondo. Farò una dichiarazione domattina». Trump, quindi, non ha promesso fuoco e fiamme come aveva ripetutamente minacciato nei giorni scorsi, ma da adolescente gradasso quale è si è limitato a twittare sulla forza militare americana, cantilenando “non mi hai fatto niente, faccia di serpente”. Non è poco, tenuto conto che, poche ore prima dell’attacco iraniano, il presidente aveva anche ritrattato l’idea di rispondere a eventuali rappresaglie iraniana bombardando i siti culturali dell’Iran, dopo che il capo del Pentagono, Mark Esper, gli aveva fatto notare che una reazione di quel tipo sarebbe stata un crimine di guerra. «Secondo diverse leggi siamo tenuti a stare molto attenti ai loro siti culturali – ha detto Trump – la legge è questa e sapete che mi piace rispettare la legge». Naturalmente tutti sanno che in realtà a Trump piace tantissimo non rispettare la legge, ma è evidente che per il momento, mentre peraltro è già in stato d’accusa, dovrà adeguarvisi per evitare guai peggiori.
Il terzo comunicato è del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, come quello di Trump sotto forma di Twitter: «L’Iran ha condotto e concluso alcune misure di autodifesa ex articolo 51 della Carta dell’Onu, prendendo di mira le basi da cui sono vigliaccamente partiti gli attacchi armati contro i nostri cittadini e i nostri altri dirigenti. Non cerchiamo l’escalation né la guerra, ma ci difenderemo contro qualsiasi aggressione». Il ministro degli Esteri degli Ayatollah, insomma, non solo dice che non vuole né l’escalation né la guerra, ma premette che la reazione militare all’uccisione di Soleimani si è conclusa.
I tre comunicati letti insieme sono quindi rassicuranti: i pasdaran interpretano la parte degli apocalittici, Trump fa lo sbruffone come da copione e il ministro iraniano avverte che, se necessario, Teheran si difenderà, ma concretamente sembra evidente che tutti e tre gli attori in campo non abbiano nessuna voglia di aggravare la tensione. Finisse come prospettano il telegramma dei pasdaran e i tweet di Trump e Zarif si potrebbe tirare un sospiro di sollievo, almeno rispetto all’ipotesi di guerra guerreggiata vecchio stile. Ma, come è risaputo, i soggetti in campo sono tutti e tre notori bugiardi patologici.