Si può fare una guerra attraverso i social media? Non una guerra a parole, ma una guerra vera, con le armi? Si può chiedere l’autorizzazione a sparare contro « i nemici» con un tweet? È la domanda che ci si può porre da ieri sera, quando Donald Trump con un post sul suo social network di riferimento, mezzo privilegiato con il quale ha giocato, e in parte vinto, la campagna elettorale, ha sentenziato: «Questi post social serviranno come notifica al Congresso degli Stati Uniti, poiché se l’Iran dovesse colpire qualsiasi persona o bersaglio Usa, gli Stati Uniti reagiranno velocemente e totalmente, forse addirittura in modo sproporzionato. Questa notifica legale non è richiesta ma consideratela tuttavia avvenuta». Un tweet che in meno di due ore ha collezionato 45 mila retweet e 150 mila reazioni.
Ma che valore legale può avere il “cinguettio” di Trump? Innanzitutto c’è da premettere che il presidente americano, al contrario di ciò che afferma nel tweet, non può dichiarare guerra perché tocca al Congresso esprimersi su eventuali partecipazioni del paese in un conflitto. Lo ha fatto 11 volte a favore dell’ingresso in guerra, l’ultima durante il secondo conflitto mondiale, e 12 sull’uso della forza in epoca più recente. Ci sono stati anche casi in cui non è avvenuto, in ottemperanza all’appartenenza degli Usa all’Onu (in Iraq con Bush) o alla Nato (in Bosnia con Clinton). A questo punto c’è da chiedersi se davvero Trump ritiene un post sui social una richiesta formale.
Ma ammettiamo che lo fosse: in questo caso che cosa succederebbe? I social network, in assoluto, rispondono a una logica più commerciale che istituzionale e questa è la ragione per cui a livello amministrativo ancora scarseggiano le leggi che regolano la loro attività. In Brasile è al culmine un conflitto tra la pubblica amministrazione e i figli del presidente Jair Bolsonaro che, a loro volta impegnati in politica, anticipano o contraddicono decisioni istituzionali attraverso roboanti post sui social media. In Italia si è pronunciato addirittura il Consiglio di Stato per definire che un tweet di un ministro non ha valore legale: l’allora titolare del dicastero della Cultura, Massimo Bray, tra i primi a comunicare anche via social le decisioni istituzionali, twittò una disposizione che venne poi considerata irrilevante non per il ruolo esercitato dal Ministro, ma per la mancanza di valore amministrativo dell’atto (la volontà della PA deve esprimersi nella “forma tipica dell’attività”). Del resto, non si può negare che il passaggio alla forma digitale dell’attività della pubblica amministrazione è ancora incompiuto.
Ma nell’avanzata America, dove non a caso i social network sono nati e prosperano, che cosa prevede la legge (oltre a impedire al presidente di bloccare gli utenti a lui contrari in violazione della libertà di pensiero)? Tra le varie sentenze ce n’è una interessante della Corte Suprema dello Stato di New York che ha autorizzato già nel 2015 la notificazione dell’istanza di divorzio tramite Facebook a un coniuge non reperibile. Si potrà quindi ritenere una notifica legale anche quella via Twitter di Trump al Congresso?