Ora il Partito democratico può osare di più. Nessuno, ma proprio nessuno, al Nazareno, immaginava un performance così brillante: non solo la vittoria di Stefano Bonaccini ma percentuali scintillanti in Emilia e persino nella dimenticata Calabria (primo partito). Un mezzo miracolo. Il brand Pd, tante volte messo in dubbio, funziona ancora, e abbastanza bene. Rilucente anche grazie al crollo strutturale del Movimento Cinque Stelle, e in qualche modo “scudo protettivo” contro il sovranismo dei citofoni. Per questo, dopo Emilia-Romagna e Calabria, il Pd potrebbe alzare la voce nella grande sala del Consiglio dei ministri, fra grillini esausti e dinanzi a un premier sempre in cerca d’autore. Prescrizione, decreti Salvini, autostrade, misure economiche: basta mediazioni al ribasso.
Si sussurra persino di un qualche rimpastino a favore dei Dem. Per ridimensionare la squadra dell’ex capitan Di Maio. Da questo momento Dario Franceschini è un vicepremier di fatto, l’uomo forte di un esecutivo sbilanciato sui democratici, e lui che è uomo accorto, non tirerà la corda ma tesserà paziente la tela. Fortissimo anche nelle cose che contano nel partito (lo si è visto nella trattativa che ha portato al no a Federica Angeli per le suppletive di Roma), Franceschini divide il primato con un Nicola Zingaretti assai tonificato dal voto di domenica. Il tandem non ha rivali. Il Pd si stabilizza su questa diarchia. Il congresso può attendere, anche se qualcosa il segretario inventerà per solennizzare la ripresa della sua leadership.
Certo, “Zinga” si è rafforzato parecchio. Sfruttando alla grande un allineamento dei pianeti praticamente irripetibile: una campagna come quella di Salvini che ha messo paura alla “democrazia emiliana” edificata nei decenni; la comparsa imprevedibile di un movimento di massa progressista e giovane come le sardine; la debolezza di concorrenti nel centrosinistra (l’irrilevanza della sinistra radicale e il mancato decollo di Renzi). Gli è andato tutto bene. Malgrado un deficit di carisma, la liquidità del gruppo dirigente, la mancanza di risorse economiche, anche il fattore Z ha salvato il segretario.
Ecco dunque il Pd proporsi come partito affidabile e tutto sommato ri-votabile, dopo la lunga stagione delle guerre balcaniche dell’era Renzi. Una calma piatta che nella vacuità grillina e nello sbracamento della destra salviniana ha rimesso in moto una certa idea della politica. Ma la forza tranquilla del Nazareno difficilmente potrà bastare al buon governo del Paese. E non ci si potrà affidare sempre al fattore Z. Per questo il segretario dovrà premere su Conte affinché il governo governi sul serio, anche battendo i pugni sul tavolo. Altrimenti la bella notte emiliana sarà stata solo l’ennesima illusione.