Chi conosce l’uomo sa che Nicola Zingaretti vive una contraddizione personale molto forte. Non gli piace questo Pd con le sue liturgie, i suoi schemi, le sue lentezze, i suoi giochini, ma è lui che contribuisce a esasperarne i difetti. I suoi dieci mesi di leadership non hanno mutato di una virgola i caratteri di fondo del partito. Adesso prova a forzare la situazione, seppure in modo più istintivo che razionale, puntando a smuovere la stagnazione nazarena e vedere l’effetto che fa. Da un parte dunque c’è il coraggio di aprire un discorso nuovo, dall’altra però il dubbio che sia tutta solo “fuffa” (copyright Orfini) e che alla fine non cambierà niente di sostanziale nel rivolgersi al Paese come una post-Ditta autoreferenziale, soprattutto se alla fine tutto dovesse risolversi con il mesto rientro di bersaniani di vario conio. Non è chiaro se il segretario faccia sul serio o la Cosetta sarà un’operazione di ceto politico. Il nome del partito, per capirci, cambia o no?
E infatti le reazioni alla “conversazione” con Repubblica – torneremo dopo sul ruolo specifico del quotidiano in questa vicenda – non paiono esattamente di eccitazione. Dietro gli apprezzamenti di rito, l’aria nel Palazzo dem appare di scetticismo condito da un tocco di preoccupazione per una sortita che non è effettivamente chiara da molti punti di vista. Così per esempio si comprende la freddezza dei franceschiniani o della corrente di ex renziani-riformisti (Base riformista) che vorrebbe “un congresso vero”, non improvvisato (quindi non ora ma in autunno) con primarie serie: già, perché Zingaretti non ha chiarito se nella sua ipotesi sia contemplata l’elezione del segretario con primarie, come statuto vorrebbe.
Ma è stato Beppe Sala ad essere, come spesso accade, il meno paludato, quello che mette il dito nella piaga: se si vuole davvero aprire il Pd «questo vorrebbe dire un sistema di governance diverso e anche la disponibilità e la generosità a far spazio ad altri». Che tradotto significa toccare il nervo più sensibile, se davvero si vuole cambiare tutto bisogna davvero cambiare tutto, a cominciare dai gruppi dirigenti e dal loro modo di gestire e di “pensare” il partito. Altrimenti l’apertura è destinata a non riuscirà, come non è mai riuscita ogni volta che a sinistra si è inventata un’operazione di superficie, i maquillage tipo la Cosa2 di D’Alema.
E poi molti si chiedono in cosa consista questa apertura, nei confronti di chi, attraverso quali iniziative. Zingaretti probabilmente sa che le Sardine non si lascerebbero inscatolare né da lui né da altri, ché anzi loro nascono esattamente separando se stesse dalla politica tradizionale; né il Pd pare attrezzato per far cadere il suo muro nei confronti della società civile, almeno questo Pd che arranca a Roma e in periferia tanto da scegliere un Michele Emiliano alle primarie pugliesi.
Alla freddezza generale, o quantomeno sospensione del giudizio, si contrappone un’entusiastica Repubblica, grande sponsor dell’uscita zingarettiana. In effetti, così il quotidiano diretto da Carlo Verdelli riprende una lunghissima vocazione, quella di consigliere del Principe della sinistra, da maieuta delle svolte del progressismo italiano di cui da sempre si erge a socratico maestro: e così due chiacchiere veloci fra il segretario del Pd e Massimo Giannini sono diventate il lievito della microscopica Bolognina di queste ore, e vai a capire per esempio se la parolina magica dello «scioglimento» del Pd sia stata pronunciata da Zinga o da Giannini (la seconda, sembra).
Insomma, bisogna vederci chiaro in questa storia di cui non è chiaro non solo l’epilogo ma neppure il prologo. Per questo c’è da immaginare che oggi e domani nel raduno a Contignano, nel reatino, ci si guarderà l’un l’altro chiedendosi: “Ma adesso che succede?”.