Un emendamento che stanzia altri 20 milioni di euro per finanziare anche per il 2020 gli ammortizzatori sociali. Il governo è intervenuto con l’ennesima “toppa”, nel decreto milleproroghe, per tenere a galla anche per quest’anno il mondo dei call center, ormai in cronica difficoltà tra licenziamenti, delocalizzazioni e posti di lavoro in bilico. E con un tavolo di crisi al Mise, che si tramanda di ministro in ministro senza trovare una soluzione. L’ennesimo contentino che però non servirà a risollevare un comparto le cui imprese, poco meno di un migliaio, hanno quasi tutte margini negativi. «Siamo soddisfatti di questo intervento perché il nostro settore non ha ammortizzatori sociali strutturali, ma ora serve al più presto mettere in piedi una politica industriale per il settore, con una legge complessiva di riordino che abbia almeno una prospettiva di medio periodo», rilancia Lelio Borgherese, presidente di Assocontact, l’associazione aderente a Confcommercio che raduna i call center in outsourcing. In pratica quelli che vincono gli appalti dei committenti di turno, e quindi sono più sensibili alle fluttuazioni di mercato.
L’interlocuzione tra i datori di lavoro e il governo è già partita, assicurano. Le associazioni di categoria aspettano solo di essere ricevute a breve dalla sottosegretaria 5S al ministero dello Sviluppo economico Alessandra Todde, che segue il tavolo di crisi. Nei prossimi giorni si dovrebbero tenere i primi incontri, per arrivare poi entro fine marzo a una proposta di legge di categoria da presentare alle forze politiche. E questa, sperano che sia la volta giusta. In passato ci avevano provato sia la deputata Dem Stefania Pezzopane, sia il senatore Cinque Stelle Mario Turco, senza esser riusciti a portare a termine la missione. Ora, però, dovrebbero esserci le condizioni politiche.
«I morsi della crisi sono evidenti. Se non si fa in fretta, si rischia di arrivare troppo tardi», dice Borgherese. Che anticipa quelli che saranno i punti principali della proposta di legge: «Ammortizzatori sociali strutturali, un fondo per la formazione continua, politiche tariffarie compatibili con la sostenibilità delle imprese e i salari dei lavoratori, innovazione tecnologica». I costi pubblici stimati della legge di settore sono intorno ai 70-100 milioni di euro l’anno. Non di più. E per chi ha delocalizzato alla ricerca di un costo del lavoro più basso, la proposta è quella di «incentivi che favoriscano in rientro in Italia». Oltre alla costituzione di un albo, con tanto di bollino di qualità, come hanno fatto in Francia, in modo da fare pulizia delle “imprese pirata” che «non rispettano contratti dei lavoratori e minimi salariali, oltre che le norme sulle privacy dei consumatori, facendo un danno al settore».
Dall’altro lato, però, i committenti privati dovrebbero mettere mano al portafogli per migliorare la qualità dei servizi. Anche qui la stima dei costi è di circa 100 milioni. «Insomma con meno di 200 milioni l’anno si potrebbe dire basta alla instabilità e continua precarietà di un settore che oggi occupa 100mila persone, quasi tutte a tempo indeterminato», dice Borgherese.
I sindacati, per una volta, sono in linea con le proposte delle società. Quelli da convincere, ora, sono i committenti privati. I grandi nomi che “fanno” il mercato italiano sono 15-20, non di più. Tra i big della telefonia, delle banche, delle assicurazioni e dell’energia. Non a caso, nell’ultima riunione del tavolo di crisi al Mise, l’incontro era riservato solo a loro. Perché è soprattutto dalle grandi aziende che appaltano all’esterno il servizio di call e contact center che dipenderà la messa in ordine del settore. È in questa tratto della filiera – popolata da microimprese senza capacità di negoziazione sui costi con i grandi player – che vanno regolati i prezzi delle gare, sempre al massimo ribasso, diventati ormai insostenibili per pagare i lavoratori e tenere a galla le aziende. Il ministero del Lavoro dal 2017 ha messo a punto delle tabelle con le paghe minime per il lavoro nei call center. Ma valgono solo per i committenti pubblici. E, per giunta, secondo gli operatori, andrebbero anche queste aggiornate al rialzo.
«Non siamo solo quelli che chiamano a qualunque ora del giorno», precisa il presidente di Assocontact. «In un Paese soggetto a invecchiamento come l’Italia, i nostri servizi semplificano il rapporto tra il consumatore e le imprese, tra il cittadino e la pubblica amministrazione. I nostri lavoratori sono anche ambasciatori della qualità della pubblica amministrazione. Ecco perché ha senso occuparsi di questo settore».
Il comparto, intanto, tra intelligenza artificiale, app e chatbot, negli ultimi anni ha perso grossi volumi. Solo il settore delle telecomunicazioni, che storicamente ha retto il mercato dei call center, in un periodo in cui anche la guerra tariffaria tra le compagnie è in una fase di tregua, ha fatto registrare un -30% del volume d’affari. E le crisi locali ormai non si contano. Ogni volta che qualche impresa vince una gara, con una coperta ormai troppo corta, ci sarà qualcun altro che in un’altra città comincerà a soffrire. Le clausole sociali non bastano più. La crisi più nota è quella di Almaviva a Palermo, ma l’elenco è lungo, soprattutto al Sud, dove i call center hanno messo radici.
Ad oggi su circa 100mila occupati del settore – in gran parte donne – il 90% ha contratti a tempo indeterminato, soprattutto part time, a cui vanno aggiunti i circa 40mila collaboratori a progetto della parte outbound (quelli che chiamano a casa, per intenderci). E l’età media è salita ormai intorno ai 35 anni. Anche perché, negli anni della crisi, tanti di quelli che hanno perso il lavoro hanno trovato una soluzione proprio nelle cuffie dei call center.