Davvero il Coronavirus potrebbe avere per il regime della Repubblica Popolare Cinese lo stesso impatto che Chernobyl ebbe sul regime dell’Unione Sovietica? Che lo scenario sia temuto dallo stesso Xi Jinping lo dimostra la notizia che, proprio per evitare il paragone, il suo governo ha fatto rimuovere dai palinsesti televisivi la acclamata serie Hbo sul famoso disastro nucleare. C’è infatti un sito di recensioni su film e libri che si chiama Douban, e che è uno dei rari angoli di web cinese dove è consentito di esprimersi con relativa libertà. E lì, a quanto pare, i paragoni tra Wuhan e Chernobyl si stavano sprecando. Qualcuno ha addirittura pensato che il regime avesse lasciato aperta apposta quella valvola di sfogo appunto per usare come capro espiatorio la dirigenza locale: salvo poi spaventarsi quando si è visto che il livello del mugugno inventiva anche i vertici nazionali.
Non bisogna però dimenticare che di “Chernobyl sanitaria cinese” si era già parlato nel 2009 all’epoca della epidemia di polmonite atipica che portò alle dimissioni del ministro della Sanità e del sindaco di Pechino. Né il regime ha traballato: anche se forse può esserci stato un rivolgimento interno a favorire l’ascesa di Xi Jinping, che non a caso si presenta come fustigatore di corrotti e inefficienti. Né la Cina ha smesso di crescere: anche se effettivamente il +6,2% del 2019 è stato la crescita più bassa da 27 anni, ed è meno della metà rispetto allo spettacolare +14,2% del 2007. Pure vero che il progetto di sorpassare il Pil Usa nel 2017 è rimasto un sogno: in quell’anno invece gli Stati Uniti registrarono un Prodotto interno lordo di ben 19,39 migliaia di miliardi, che era oltre un terzo in più rispetto alle 12,24 migliaia di miliardi della Cina.
Ma ancora più fantapolitica si rivelò l’ipotesi di alcuni esperti che se l’epidemia non fosse stata circoscritta nel più breve tempo possibile il mondo intero avrebbe potuto rischiare un “inverno nucleare elettronico” per scarsità di hardware. Una immagine opera del think tank di analisi finanziarie Aberdeen, che sottolineava come, nelle città di Guangzhou e Shenzen, si producesse all’epoca il 50% di tutti i chip del pianeta, si assemblasse l’85% delle componenti di computer e si fabbricasse quasi il 100% degli adattatori di corrente Ac-Dc per computer portatili.
Chi fa stime adesso è invece Standard & Poor’s, che dopo aver valutato l’impatto sul Pil cinese in una riduzione dal 5,7 al 5% ne traduce il contraccolpo sul Pil globale in un -0,3%. Secondo questa previsione gli effetti economici del Coronavirus si faranno “sentire maggiormente sui settori esposti alle spese cinesi legate alle famiglie come il traffico aereo, gli aeroporti, i giochi, la vendita al dettaglio e le strade a pedaggio. Chiusure temporanee di impianti in Cina possono causare interruzioni della catena di approvvigionamento in alcuni settori, tra cui automobili, tecnologia e materie prime industriali. In Cina, sono probabili misure di soccorso” all’emergenza, “tra cui riduzioni fiscali e sussidi, così come sostegno alle banche”.
Sono sempre scenari: non profezie. Ma che virus e batteri possano influenzare la storia e addirittura modificarla non è una fantasia. Gli storici, infatti, da tempo hanno cominciato a rileggere le vicende del passato secondo questa particolare chiave di lettura. Sarebbero state, ad esempio, le epidemie di colera del primo Ottocento a provocare la caduta dell’Impero austro-ungarico. La rapida decimazione della borghesia di lingua tedesca in città come Budapest, Praga o Zagabria non avrebbe infatti dato il tempo al sistema scolastico di formare in tempi adeguati “ricambi germanofoni” tra i figli dei contadini acculturati, dando così spazio a un nuovo ceto medio di lingua magiara, ceca e croata, sensibile alle sirene dei nuovi nazionalismi.
L’Impero, indebolito dal vibrione del colera, non poté così ostacolare il Risorgimento, a sua volta “ritardato” per secoli dal plasmodio della malaria. Sarebbe stato infatti l’effetto micidiale delle punture di anofele sui non italiani a convincere i Sacri Collegi dei Cardinali a riservare il soglio pontificio ai soli nativi della penisola, dopo il fallimento del tentativo di una “leva” di papi francesi di allontanare il papato dalle paludi pontine spostandolo ad Avignone. E lo Stato Pontificio si era così frapposto all’unità nazionale. Ma come aveva potuto, a sua volta, la Chiesa spodestare da Roma i Cesari, se non con l’aiuto della Yersinia pestis? Sarebbero state le epidemie di peste del periodo del Basso Impero ad aprire la via alle invasioni barbariche. E sarebbe stata un’altra pestilenza, che infuriò nel Medio Oriente nel VII secolo d.C., a infiacchire i due imperi rivali, bizantino e sasanide, rendendoli incapaci di reagire all’ondata di guerrieri a dorso di cammello provenienti dal deserto arabo, resi fanatici dalla nuova fede annunciata dal profeta Maometto. Esploso grazie alla peste, però, l’Islam implode di fronte all’espansione europea proprio a partire dal XVIII secolo, in coincidenza sospetta con la conversione delle tribù del Bengala orientale. I bengalesi portano infatti con loro, durante i pellegrinaggi alla Mecca, i vibrioni colerici endemici nel delta del Gange.
Il punto di partenza di questo nuovo filone di studi è la nozione, ormai comunemente accettata, di “genocidio preterintenzionale”, usata per dare un nome a ciò che avvenne alle popolazioni dell’America pre-colombiana dopo il 1492. La cosiddetta scuola di Berkeley ha elaborato proiezioni secondo cui gli indigeni amerindi sarebbero passati da 90-112 milioni di persone nel 1492 a 4,5 milioni a metà del XVII secolo. Stando a questi numeri, il massacro sarebbe stato superiore sia ai 50 milioni di vittime provocate dalla pandemia di febbre spagnola del 1918, sia ai 30 milioni di morti della peste nera del XIV secolo. È vero, però, che i cadaveri della spagnola si ammucchiarono in soli quattro mesi e quelli della peste nera in quattro anni, mentre il “genocidio preterintenzionale” si sarebbe spalmato nell’arco di due secoli.
Le cifre della scuola di Berkeley sono contestate dalla scuola minimalista che fa capo ad Angel Rosenblat, secondo la quale il decremento demografico sarebbe stato minore, e si sarebbe passati cioè da 13,3 milioni di abitanti del 1492 a 10 milioni nel 1650. Ma anche questa seconda ipotesi ci descrive uno scenario apocalittico, non spiegabile solo con la ferocia dei Conquistadores contro cui il missionario Bartolomé de Las Casas scrisse veementi pamphlet. E non perché la violenza non fosse presente, ma perché non era qualitativamente peggiore di quella utilizzata nello stesso periodo dagli ottomani nei Balcani o dagli spagnoli durante il Sacco di Roma: per non parlare dei metodi di guerra che, nella stessa Mesoamerica, avevano avuto gli Aztechi.
D’altra parte, anche la spagnola seguì la Prima guerra mondiale, e la peste nera fu un effetto “collaterale” delle invasioni mongole. Ma più che degli eventi bellici le grandi pandemie vanno considerate conseguenza dei movimenti di globalizzazione, nei quali i soldati in marcia sono per virus e batteri veicoli efficaci quanto e più di commercianti e turisti.
Ma se la peste nera colpì l’Europa con la stessa violenza con cui il “genocidio preterintenzionale” avrebbe colpito di lì a un secolo e mezzo l’America, l’impatto psicologico fu ben diverso. Concentrando ingenti fortune nelle mani dei sopravvissuti, distruggendo antiche caste chiuse, migliorando il rapporto tra popolazione e risorse, annientando la vecchia “mafia intellettuale” che aveva mantenuto il latino come strumento di esclusione delle masse dalla cultura, il massacro di metà della popolazione europea, più che annichilire il Continente, valse invece a rimuovere le remore che lo tenevano ancora chiuso in se stesso, dando il via al vorticoso moto di progresso che avrebbe posto fine al Medioevo e dato inizio all’età moderna. Al contrario, le culture precolombiane furono traumatizzate per sempre da quello sterminio.
Le malattie, dunque, possono modificare la storia, ma non sono indifferenti al contesto culturale in cui operano. Col loro senso – anche abnorme – di un peccato originale che dio poteva periodicamente punire a colpi di catastrofi, gli europei del Medioevo avevano comunque le risorse psicologiche per farsene una ragione e ricominciare da capo. Per i precolombiani, invece, il “silenzio degli dei” di fronte alle preghiere dei fedeli era una spinta ulteriore a rinunciare alla vita, o per lo meno alla propria cultura ancestrale, favorendo l’accettazione del nuovo dio portato dai cristiani. Su questo peculiare punto di vista dei “vinti” hanno insistito in particolare gli studi di Nathan Wachtel a proposito del Perù e quelli di Tzvetan Todorov a proposito del Messico. Ma nella costruzione di un vero e proprio modello storiografico sull’interrelazione tra malattie, cultura e storia analogo alle chiavi di interpretazioni create da Marx a partire dall’economia o da Weber a partire della religione sono da citare soprattutto lo studio dei francesi Jacques Ruffi e Jean-Charles Sormia, pubblicato in italiano col titolo Le epidemie nella storia dell’uomo, e, ancor di più, La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea, dell’americano William H. McNeill.
Partito dall’analisi del caso del Messico dopo la Conquista, McNeill è arrivato a costruire un’originale griglia interpretativa che affianca il “microparassitismo” degli agenti patogeni al “macroparassitismo” delle élite dominanti. Sia i parassiti “micro” che i “macro”, argomenta, hanno interesse a “spremere” risorse dalle loro vittime. Ma quando esagerano e le uccidono, finiscono per soccombere, a loro volta, per mancanza di “cibo”. La civiltà, dunque, corre lungo uno stretto sentiero, in bilico tra i condizionamenti socioeconomici che determinano il parassitismo “macro” e i condizionamenti climatici che determinano il parassitismo “micro”. Un esempio dal libro: in India, gli invasori ariani lasciarono il Sud agli aborigeni dravida proprio perché il clima di quell’area era troppo caldo per il loro sistema immunitario. Ma il loro “macroparassitismo” ha comunque creato una pressione tale sulle risorse che la cultura locale ha dovuto “inventare” le pratiche ascetiche dei fachiri e dei santoni, come “incentivo” spirituale per un’ampia fascia della popolazione, che rinuncia così a pesare sui circuiti del consumo.
Ma il culmine per questi studi è stato il celebre Guns, germs and steel, scritto nel 1997 da Jared Diamond: un fisiologo e biologo con la passione dell’ornitologia che frequentando la Nuova Guinea appunto in cerca di specie di uccelli iniziò anche a interessarsi alla antropologia e geografia, per fondere poi tutte assieme queste competenze in una analisi di Storia Mondiale che a partire da que primo best-seller si è poi allargata in altri saggi anche a ecologia, archeologia e politologia. Premio Pulitzer, quell’Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, secondo il titolo italiano, partiva da una domanda: perché è stata la civiltà “europea” a conquistare il mondo? Non certo per “naturale superiorità della razza bianca”, ma perché, di tutte le aree adatte allo sviluppo dell’agricoltura, nessuna presentava una simile varietà di piante idonee all’alimentazione – in un clima temperato e in una zona vasta – come quella del Mediterraneo.
Il “Mare Nostrum” dei romani, inoltre, a cavallo fra tre continenti, aveva una posizione strategica particolarmente adatta a favorire scambi di idee e conoscenze. Si aggiunga che, dei quattordici grandi mammiferi addomesticati, ben tredici sono originari dell’Eurasia o del Nord Africa, mentre le specie provenienti dall’Africa sub-sahariana rifiutano la cattività. Fu dunque l’allevamento, con l’assuefazione ai virus degli animali domestici, a dare all’uomo occidentale un vantaggio decisivo non solo dal punto di vista tecnologico ed economico, ma anche immunitario. I germi, dunque, come dice il titolo, con l’acciaio e i cannoni.
Ovviamente, l’impatto continua. La mucca pazza fu interpretata come un campanello d’allarme per la deregulation di derivazione thatcheriana, e portò l’Ue a reagire a colpi di regolazioni che potrebbero aver innescato per ripicca la febbre della Brexit. Dell’Aids si è detto che potrebbe aver posto termine al modello “libertino” che si era imposto nel ’68. Ma non solo i virus possono determinare la politica: anche viceversa. Oggi si dibatte se in Cina la diffusione del Coronavirus non sia stata appunto favorita per il tentativo delle autorità di silenziare i medici che denunciavano il contagio.
In Cina nel 1911 l’ultima grande epidemia di peste della Storia fu innescata da un evento squisitamente politico come la proclamazione della repubblica. Il batterio della Yersinia pestis si spande infatti coi morsi di roditori infetti, o più spesso, delle pulci che vivono addosso a questi roditori. E i roditori sono particolarmente abbondanti nelle steppe della Manciuria: terra da cui la dinastia Qing nel XVII secolo era partita alla conquista della Cina, e che gli stessi Qing avevano voluto continuare a riservare alle sole tribù locali. Ma a fine ‘800 l’occupazione russa aveva aperto la “cortina di salice”, come veniva chiamata, ai coloni cinesi, e il processo si accentuò dopo la rivoluzione repubblicana che nel 1911 abbatté i Qing. Solo che i mancesi avevano regole ataviche di adattamento ecologico, per cui ad esempio cacciavano i roditori da pelliccia solo col fucile o l’arco: nelle trappole rischiavano infatti di finire bestie intontite dal contagio. Per la stessa ragione, la tribù che vedeva una marmotta barcollante levava subito le tende per andarle a piantare da un’altra parte. I contadini cinesi, ovviamente, risero di queste superstizioni da “barbari”. E si infettarono in massa.