Hanno vinto loroIl populismo come metodo di governo, dal caso Savona al coronavirus

L’imbarazzo della Farnesina, cioè di Di Maio, per la gestione dell’emergenza dà la misura del punto cui siamo giunti. Un paese gettato nel panico per nascondere il fallimento della verifica

ANDREAS SOLARO / AFP

Il Corriere della Sera dava conto ieri dell’imbarazzo della Farnesina – vi prego di fare bene attenzione: stiamo parlando del ministero guidato da Luigi Di Maio, e sì, ho detto proprio «imbarazzo» – per il modo avventato e allarmistico in cui il governo avrebbe affrontato l’emergenza coronavirus, decidendo immediatamente di bloccare i voli da e per la Cina, senza altro motivo apparente, stando sempre alle lamentele provenienti dal ministero degli Esteri, che il desiderio di mostrarsi attivo del ministro della Sanità, Roberto Speranza.

E così, ora che Francia, Germania e Gran Bretagna annunciano il rimpatrio dei propri connazionali, l’Italia si trova in difficoltà, avendo bloccato gli aerei – non i voli cargo per le merci, che sono tornati a volare regolarmente dal 3 febbraio, cioè praticamente subito – e non potendo ragionevolmente chiedere una mano ai Paesi europei che non lo hanno fatto. La consolazione – a riprova del carattere puramente propagandistico della scelta – è che tornare in Italia dalla Cina è comunque facilissimo: basta andare in Francia, per esempio, e ripartire da lì.

Ricapitolando: il ministero guidato dall’uomo politico che meno di due anni fa ha orchestrato, unico caso nella storia della politica mondiale, l’impeachment per un giorno, semplicemente perché non sapeva cosa postare su Facebook per fare più like di Matteo Salvini, che gli aveva soffiato la campagna populista sulla mancata nomina di Paolo Savona al ministero dell’Economia, fa sapere oggi di essere in imbarazzo per il modo in cui la crisi del coronavirus è stata gestita dal governo.

Governo che il 30 gennaio, nelle persone del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del ministro della Sanità Speranza, per annunciare in conferenza stampa i primi, e finora fortunatamente unici, due casi (in Francia sono sei, in Germania dodici), non ha esitato a interrompere il fondamentale vertice di maggioranza dedicato alla verifica – che chiaramente non sapevano come chiudere, tanto è vero che è rimasta aperta – per alimentare ulteriormente la psicosi, già copiosamente diffusa dai mezzi di comunicazione (ancora il 31 gennaio, mentre da noi i giornali facevano numeri pressoché monografici da un paio di giorni, i principali quotidiani francesi, Le Monde e Le Figaro, in prima pagina, dedicavano al coronavirus lo spazio di un trafiletto).

Quando, il 27 maggio 2018, assistevamo all’incredibile sceneggiata della messa in stato d’accusa del Capo dello Stato in piazza, con relative dirette Facebook, e ancora più attoniti alla sua cancellazione nel giro di ventiquattro/trentasei ore, tutti noi, ammettiamolo, credevamo di avere davanti la quintessenza del populismo grillino arrivato alle soglie del potere; ma in quella precipitosa ritirata – culminata pochi giorni dopo nel grottesco elogio di Sergio Mattarella come «angelo custode» del governo, da parte di quello stesso Di Maio che pochi giorni prima lo voleva mandare in galera come traditore – vedevamo anche un segnale di resistenza delle istituzioni, abbandonandoci all’illusione che qualche argine potesse ancora reggere. Oggi vediamo che quel metodo di governo è diventato invece la norma, condiviso praticamente dal cento per cento delle forze politiche. E dal cento per cento della stampa, che infatti non dice niente, perché dovrebbe parlare anzitutto di se stessa.

E così, un gradino dopo l’altro, diventa normale persino leggere dell’imbarazzo di Di Maio per la gestione irresponsabile e populista della crisi, da parte degli altri. E verrebbe quasi da dargli ragione, prima di mettersi a piangere.

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