Donald Trump volò direttamente a Singapore, l’isola-nazione del Pacifico, dove la storia lo stava aspettando. Aveva un appuntamento con Kim Jong-un per il primo colloquio faccia a faccia in assoluto tra un presidente americano e un leader nordcoreano. Durante il tragitto, uno dei principali consiglieri di Trump rivelò che la scenata del presidente in Québec forse aveva a che fare con qualcosa che andava al di là delle mere controversie commerciali. «POTUS [the President Of The United States] non si fa mettere i piedi in testa da un primo ministro canadese» disse il 10 giugno alla CNN Larry Kudlow, direttore del National Economic Council. «Non può concedersi di mostrare la minima debolezza alla vigilia dei negoziati con la Corea del Nord, ed è giusto così.»
«Dunque, il punto è la Corea del Nord?» chiese il presentatore Jake Tapper.
«Ma certo, in buona parte» rispose Kudlow.
Il presidente immaginava lo storico incontro sul disarmo come la suprema realizzazione di Donald J. Trump. Pensò che gli avrebbe persino fatto vincere il Nobel per la pace. Aveva cominciato molto tempo prima a pianificarlo in tutto il suo sfarzo. Qualche mese addietro, quando lui e Kim avevano iniziato a programmare l’incontro, l’ufficio stampa della Casa Bianca aveva confezionato delle medagliette rosse, bianche e blu con impresso il viso argentato di Trump faccia a faccia con Kim. Poco prima di partire per Singapore, il 9 giugno, Trump annunciò che sarebbe riuscito a capire se fosse raggiungibile un accordo per la denuclearizzazione «nel giro del primo minuto» dell’incontro. Come? «Il tocco, la sensazione… mi viene spontaneo» si vantò con i giornalisti.
Un suo consigliere di vecchia data riassunse così l’atteggiamento di Trump nei confronti dei colloqui con la Corea del Nord: «Li affronta come affronta tutto il resto, e cioè: questo è un altro topo che ruggisce, che si è legato alla Cina per la coda, e per il quale Donald Trump potrebbe essere il messia. Perché? Perché, nella sua testa, Donald J. Trump crede di avere, come presidente, la capacità di trovare un modo di dare [a Kim] quello che vuole e ottenere a sua volta quello che vuole. Per lui è un affare come un altro».
Il presidente, aggiunse lo stesso consigliere, si era detto: «Dal punto di vista intellettuale sono all’altezza di Jimmy Carter? No, ma non ne ho bisogno. Ho l’immenso bacino di capitale politico a cui potevano attingere i Bush? No, ma non ne ho bisogno. Io, che cos’ho? Posso giocare a tennis uno contro uno. Non devo giocare a scacchi. Non mi serve una diplomazia strategica, a lungo raggio».
Il 10 giugno, quando Trump arrivò a Singapore, circa trentasei ore prima del suo incontro con Kim, il clima era così afoso che le camicie dei visitatori s’incollarono alle loro schiene non appena uscirono dal velivolo. Circa cinque ore prima, Kim era atterrato a bordo di un Boeing 747 prestatogli dal governo cinese. Trump era inquieto. Non era mai contento quando doveva uscire dalla bolla della sua vita quotidiana: il suo letto, i suoi televisori, le sue bistecche e i suoi hamburger. Impaziente, il presidente disse ai suoi collaboratori di anticipare all’11 l’inizio del summit programmato per il 12 giugno. Voleva vedere Kim subito. «Siamo arrivati» disse Trump. «Non possiamo farlo e basta?»
Dopo settimane di meticolosi negoziati diplomatici fra i governi statunitense e nordcoreano per organizzare la scenografia dell’incontro, Trump provocò un bel trambusto. I suoi collaboratori, compresi il segretario di Stato Mike Pompeo, John Kelly e John Bolton, si opposero al cambio di programma. Gli dissero che gli serviva un giorno in più per prepararsi ai colloqui con Kim. Inoltre, l’11 giugno, Trump aveva in programma di incontrare il primo ministro di Singapore, una visita di cortesia che, se cancellata, avrebbe offeso i padroni di casa. A quel punto, l’addetto stampa Sarah Sanders sfoderò l’argomentazione che si rivelò convincente: se avesse anticipato l’incontro all’11 giugno, un lunedì, negli Stati Uniti sarebbe stato trasmesso dal vivo la domenica notte, perché Singapore è dodici ore avanti rispetto a Washington. «Signore, sta partecipando a un incontro storico e non lo vuole in prima serata?» chiese Sanders a Trump. Certo che lo voleva in prima serata.
Quando incontrò Kim nel lussuoso hotel Capella sull’isola-resort di Sentosa, Trump strinse la mano del dittatore per tredici secondi, gli diede una pacca sulla schiena e lo scortò sul sontuoso tappeto rosso. Kim era un reietto, probabilmente il peggior violatore di diritti umani al mondo, oltre che determinato a potenziare il suo arsenale nucleare. Eppure, Trump gli offrì una festa, inondandolo di complimenti e dichiarandosi onorato di essere in sua presenza. L’incontro fu minuziosamente allestito in modo da mettere entrambi i leader su un piede di parità, così da normalizzare l’autoritario Kim. Lo spettacolo era tanto stridente che anche il dittatore coreano ne colse la stranezza. Qualcuno lo sentì dire a Trump, attraverso l’interprete: «Saranno in molti a pensare che si tratti di una specie di fantasia… un film di fantascienza».
Le quasi nove ore passate da Trump con Kim simboleggiavano bene la diplomazia da reality show del presidente. L’incontro fu leggero nella sostanza, ma pesante nei superlativi. Trump descrisse Kim come «molto dotato», «molto intelligente» e «un ottimo negoziatore». Disse che il popolo nordcoreano era «molto capace» e il futuro del loro paese «molto, molto luminoso». E si arrogò il merito di aver prevenuto l’attacco nucleare della Corea del Nord a Seul, la capitale sudcoreana, che dista appena 56 chilometri dal confine e ha circa 10 milioni di abitanti. «È un vero onore per me averlo fatto, perché, sapete, penso che potenzialmente avreste potuto perdere, che so, 30, 40, 50 milioni di persone» disse il presidente.
Trump iniziò la conferenza stampa a Singapore, il gran finale, proiettando un film che aveva commissionato, prima nella versione in coreano e poi in quella in inglese. Il film, che ricordava in modo inquietante i video di propaganda di Pyongyang, ritraeva la Corea del Nord come una sorta di paradiso, con grattacieli scintillanti, tramonti in time-lapse, treni ad alta velocità, cavalli maestosi che correvano nell’acqua e bambini che saltellavano felici in una piazza cittadina. Comprendeva anche un montaggio di immagini di Kim e Trump che salutavano con le mani e alzavano il pollice in segno di vittoria, come se fossero due candidati alleati in una campagna elettorale.
I giornalisti restarono interdetti. Trump spiegò di averlo realizzato per mostrare a Kim come sarebbe stato il futuro del suo paese se avesse abbandonato le armi nucleari e normalizzato i rapporti con l’Occidente. Le coste della Corea del Nord sarebbero potute diventare una meta di villeggiatura esclusiva! Trump disse di aver mostrato personalmente il video a Kim su un iPad, e che, sì, il dittatore aveva apprezzato.
«Hanno delle spiagge fantastiche» disse Trump ai giornalisti. «Si vedono quando sparano con i cannoni verso l’oceano, no? Ho pensato: “Cavolo, guarda quella baia. Non ci starebbe bene un bellissimo condominio?”. E gliel’ho spiegato, gli ho detto: “Invece di fare quel che fate, potreste costruirci i migliori alberghi del mondo”. Immaginatelo in un’ottica immobiliare.»
da: Una presidenza come nessun’altra. Come Donald Trump sta mettendo in crisi l’America, di Philip Rucker e Carol Leonnig, Mondadori, 2020