Dunque, è chiaro a tutti che Achille Lauro ha vinto la settantesima edizione del festival della canzone italiana. Di sicuro, è chiaro a me. “Me ne frego” (cit.) di chi sarà l’artista più votato: comunque vada, in questi giorni ho visto Achille con un Sanremo intorno.
Forse ho cominciato a pensarci già dalla storia del passo indietro, anzi no, da infinitamente prima: dal #metoo, dalle discussioni sulle quote di parità, sugli asterischi nei plurali e sui panel di soli maschi, con le donne che si dividevano e si accapigliavano, con gli uomini che si dividevano e si irrigidivano o si affrettavano a schierarsi dalla parte dei buoni (non si sbaglia mai: più sono misogini più devono autocertificarsi femministi, ovviamente difendendo solo le donne che ritengono accettabili o votabili e continuando a fare spirito di patata su tutte le altre). Insomma, da sempre. No, non è vero, ho cominciato a pensarci il primo minuto della prima serata, però la domanda era già lì, nell’aria: che versione di sé ci proporrà il festival-dinosauro dei presentatori (quasi) tutti maschi e delle vallette tutte femmine? Di contro, c’erano state le sfuriate contro la trap maschilista e il mancato riconoscimento delle qualità di Georgina Rodriguez con tanto di obbligo di impararne il nome, ma un conto è inseguire l’indignazione del giorno nella propria bolla on line, un altro salire sul palco e rendere conto a un certo numero di italiani della propria permeabilità alle trasformazioni sociali. Un conto è urlare dagli spalti, un altro giocare la partita.
Dunque, non potevamo perderci per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia di un Sanremo inattrezzato come certi maschi alle prese con i femminismi, un festival che per non scontentare nessuno le tenta tutte: il monologo sulla violenza, il sermone sulla bellezza, le stecche dell’uomo che piange perché si sente inadeguato a interpretare una donna, il tentativo maldestro di fare del “passo indietro” un tormentone, le artiste unite dalla sorellanza, l’evocazione comico-medianica di una delle donne più potenti della tv, le gaffe di quello che si è iscritto alla laurea breve per acquisire il lessico corretto in una settimana e se ne esce con cose tipo “l’artista femminile”, l’effetto soporifero di quell’altro che per cinque minuti ha avuto un momento di gloria perché una volta aveva insultato le ragazze in una canzonetta, il permesso prima di presentare qualcuna come bella e sempre precisando: e intelligente, le pacche sulla spalla fra maschi “eh ma non si può più dire niente”, i baci tra maschi per significare che invece loro sono aperti, la tanto intensa lettura della Bibbia laddove un tempo era tutto uno sparigliante inno alla patonza. Insomma, il caos, l’imbarazzo, il disagio.
Per fortuna, però, abbiamo avuto Achille Lauro.
Come il Cristo in gonnella nella chiesa di Scicli dipinto alla fine del Seicento da un pittore spagnolo, Achille entra in scena vestito da san Francesco, però barocco e donna. Un po’ muscoloso un po’ sfranto, né efebo né macho, col sospensorio pubico per rendere ancora più esplicito il suo “me ne frego” indirizzato agli spogliatoi dei maschi, con la voce biascicata del ragazzino cresciuto nel terzo municipio di Roma si toglie la mantella e si offre in sacrificio per noi: “Fai di me quel che vuoi, sono qui (…) ci son cascato di nuovo, pensi sia un gioco vedermi prendere fuoco”, come abbiamo detto tutte e tutti la milionesima volta che ci siamo innamorati, “dimmi una bugia me la bevo, sì sono ubriaco ed annego”, come abbiamo detto tutte e tutti la prima volta che abbiamo capito che all’amore che strappa i capelli ci pensiamo domani, intanto combiniamo per stanotte e poi si vede.
Così Achille Lauro, il santo, fa il miracolo: esce dal ghetto della dolenza, dell’indignazione, dell’autocompiacimento, dell’autocommiserazione, distrae tutti dagli automatismi vittima-carnefice, mitraglia un ossimoro dopo l’altro, si immola consapevole, ha una fragilità magnetica, la profondità superficiale delle piume del pavone. Non si atteggia a queer, piuttosto usa il verbo queer, lo agisce. Non fa il funerale alla stranezza, non la immobilizza, non la usa come soluzione ma come agitazione. Non è tanto il solito solco paralizzante (se sei così diverso perché vai nella tana dell’industria musicale? E se vai nella tana dell’industria musicale perché vuoi farci credere di essere così diverso?), quanto il disorientamento che semina e innesca fra gli spettatori un disprezzo confuso: sei stonato anzi no anzi sì ma tanto non importa, è il festival della canzone anzi no è il festival dello spettacolo, sei blasfemo anzi non lo sei abbastanza, ecco qual è il punto: non hai inventato niente, sei in ritardo di qualche decennio, e allora David Bowie, e allora Renato Zero, e allora le foibe (cit.). La differenza fra Platini che gioca la partita e il tifoso sugli spalti, mi spiegò una volta un saggio, è che Platini continua a giocare, mica si ferma a rispondere.
Achille Lauro ha continuato la sua partita e in più, distrattamente, ha risposto agli spalti vestendosi da David Bowie, mentre centrava la più commovente e attuale interpretazione della cantante meno imitabile di tutti i tempi, Mia Martini. Hanno fatto più Achille e Annalisa con la loro cover degli Uomini non cambiano di cento monologhi e mille campagne contro il femminicidio, costringendo tutte e tutti a entrare in quello che stava accadendo sulla scena, rivoltando lo schema ormai anestesizzato di una comunicazione sclerotizzata e inefficace e restituendo complessità ai ruoli, mettendoci dentro pathos, ridicolaggine, assurdità e brividi – finalmente risvegliando un sentimento. Partendo da un maschio che si dice femmina e canta “sono stato anch’io bambina”, arrivano a raccontarci dov’è davvero la violenza e quanto insidiosamente sia dentro di noi. Poi, la sera dopo, Achille torna a fare sé stesso e si veste da marchesa Luisa Casati, la divina musa del Novecento, “mecenate, performer prima della performing art e opera d’arte vivente”, come la definisce lui su Instagram, facendo per l’acculturamento dei suoi follower più di cento monologhi ispirati e mille vuote campagne su quanto è bello leggere.
Purtroppo per gli altri, qualsiasi altra dignitosa, pur moderna, pur studiata esibizione è invecchiata di cent’anni in un istante, o forse era già vecchia e un bambino travestito da sé stesso ha solo indicato il re nudo, chissà. Del resto irritare è uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo. Qualcuno che se ne frega il giusto: Achille Lauro, nostra bambina sgangherata.