La maglia azzurra numero 10 gli appartiene. Con il colore della Nazionale si è identificato Roberto Baggio, nonostante tre mondiali persi ai rigori e pur non avendo mai partecipato all’Europeo. Il Codino Divino campione di tutti gli italiani ma a cui nessun tifoso di club si è veramente legato. Artista sì, probabilmente assoluto, uomo squadra mai, bandiera neppure – Baggio non è né Totti né Del Piero, né Maldini o Baresi né Zanetti. Paragonabile piuttosto a uno come Zlatan Ibrahimovic, e non solo perché entrambi hanno giocato con Juve, Milan e Inter, squadre che i trofei importanti li hanno poi vinti di senza di loro. Qualcosa vorrà dire?
Per 66thand2nd –editore che sta nobilitando finalmente la letteratura sportiva in Italia- è in uscita la biografia di Roberto Baggio scritta da Stefano Piri, classe 1984, che di Baggio avrà visto soprattutto la fase calante della carriera. Il rischio di un’agiografia è sempre in agguato quando l’oggetto di analisi è fondamentalmente incompiuto, quasi che la cultura della sconfitta prevalga, dal punto di vista stilistico, sull’apoteosi della vittoria. E invece Piri ha il coraggio e l’intelligenza di insistere su un dubbio ben radicato: se dal punto di vista del valore assoluto Roberto Baggio è stato il talento italiano più cristallino della sua epoca e non solo, va però considerato che il calcio è un gioco di squadra e, soprattutto nell’era contemporanea, il campione che non si mette al servizio degli altri dieci un vero campione non lo è fino in fondo.
Alla narrazione di Piri aggiungiamo i dati nudi e crudi: rispetto ai numeri 10 suoi coevi, Baggio ha totalizzato 643 presenze e 291 reti in carriera con 7 squadre diverse, 56 partite e 27 gol in Nazionale. Del Piero 777 e 316 gol con la maglia della Juventus, 91 e 27 in azzurro. Totti 786 e 307 tutte in giallorosso, 58 e 9 in Nazionale. Sia Totti che Del Piero campioni del mondo nel 2006, due anni dopo il ritiro di Baggio, simbolicamente liberatisi dall’ombra lunga del collega e richiamato spesso a furor di popolo nonostante per gli allenatori costituisse più un problema che una risorsa.
C’è qualcosa nella storia di Baggio che parte dalla sua fragilità fisica, dall’essere stato costretto a convivere fin da giovanissimo con infortuni che ad altri avrebbero troncato la carriera e che lui è riuscito solo in parte a celare, inseguito però dai soliti fantasmi. In Nazionale ci vai ogni tanto, nel club sei immerso nei riti e nelle abitudini della vita quotidiana e se qualcosa non va può trasformarsi in un incubo. Agli allenatori, d’altra parte, è richiesto di fare il meglio con tutti gli effettivi e un solo talento anarchico non è mai sufficiente. Eriksson, Lippi, Trapattoni, Capello, Ulivieri, Sacchi tutti concordi nel liberarsi di Baggio appena possibile. Ancelotti addirittura mise il veto al suo acquisto a Parma. Vezzeggiato da Maifredi nella Juve più folle degli ultimi trent’anni, additato da diversi compagni come un piantagrane e uno «spacca-spogliatoi», recuperato all’atto finale da Carlo Mazzone a Brescia, quando Baggio scelse di lottare per la salvezza a suon di gol nella speranza di riconquistare l’adorata maglia azzurra.
Vinse il pallone d’oro (allora giocava nella Juventus del Trap, particolare non trascurabile, che solo in bianconero ha vinto qualcosa di importante) quando ancora la classe pura era considerata valore assoluto. Oggi non sarebbe più possibile. Il saggio di Piri, insomma, non scioglie l’enigma sul ragazzo di Caldogno e a leggere le interviste recuperate con attenzione filologica i dubbi permangono. Umile e presuntuoso, silenzioso e tagliente, a proprio agio nel ruolo di vittima di un complotto ordito contro di lui. Tutto ciò non toglie una virgola all’ammirazione. Di fronte a Roberto Baggio ci si toglie il cappello, si fa l’inchino, ma l’amore no, quello è un’altra cosa. L’amore è quello per i tuoi colori, dividerlo con altri è impossibile. Ecco perché ci si riscopre patrioti solo ai Mondiali e poi, il giorno dopo, di nuovo a pensare ai fatti nostri.