Prima di tutto, le presentazioni. Tame Impala signfica Kevin Parker, polistrumentista australiano di 34 anni che ha conquistato la celebrità con il suo album del 2015 “Currents”. Da lì è stato un fiorire di collaborazioni: ha scritto testi per Lady Gaga, aiutato Kanye West, ha ricevuto una cover di Rihanna e una dagli Arctic Monkeys. Ha fatto anche la sua comparsa in un album di Mark Ronson e di Travis Scott. Un giro del mondo pop e rock che ha contribuito all’evoluzione del suo stile. O meglio, a rendere più decisa la svolta di cinque anni fa.
Non più un rocker dai tratti psichedelici – con un debole per le schitarrate selvatiche – ma, come ricorda il The Guardian, un artista in grado di riempire stadi con sonorità sintetiche lavorate di cesello nel suo laboratorio-studio. Un passo di lato, riconosciuto da lui stesso ammettendo di ispirarsi di più a Max Martin, il re del pop mondiale (qui un suo ritratto) che ai capelloni degli anni ’60.
E lo stesso è “The Slow Rush”, il suo ultimo album, il primo da cinque anni: titolo ossimorico per un’ora di sonorità fluide, a tratti oniriche, che mirano a sedare i contrasti più che a metterli in evidenza. Un groove «sempre più morbido», dice Pitchfork, che però non rimane inerte. Anche se la promessa contenuta nella seconda canzone, “Instant Destiny”, cioè «I am about to do something crazy», non viene mantenuta: tutto l’album, nel susseguirsi fluttuante delle melodie, mantiene e concentra l’energia. Niente follia, siamo cresciuti. E «Nothing lasts forever», come dice in “It Might Be Time” lo confessa.
Non ci sono canzoni che spiccano, non sono previste hit. Il magma sonoro che scorre in olte un’ora di canzoni è ciò che rimane di quanto è accaduto in questi cinque anni: la svolta pop, il successo, il matrimonio, la morte del padre. Proprio a lui, ormai irraggiungibile, si rivolge nella meditativa in “Posthumous Forgiveness” così: «I wish I could tell you about the time I had Mick Jagger on the phone». Forse il verso più bello di tutto il disco.
Per il resto si galleggia su echi anni ’80, come in “Borderline” (obbligatorio seguire la linea del basso) e in “On Track”, dove il suono resta sommerso tra un pianoforte e richiami retrofuturistici. Se a tratti sembra di sentire Madonna o Michael Jackson, subito dopo si colgono i Sigur Ros, i Radiohead (“Tomorrow’s Dust” potrebbe essere stata scritta, in tranquilltà, da Thom Yorke), ma quelli che a un primo ascolto sembrano dei Beatles contemporanei evolvono nell’ultimo Bon Iver: tutti aspetti declinati secondo ritmi carezzevoli e sonorità meditative. E una grande cura per i particolari. È appunto sui dettagli si vede la firma di Kevin Parker: uno di questi è l’Auto-Tune, usato con giudizio per incanti spettrali.
Un album di maturità, insomma. “The Slow Rush” non ha la potenza dirompente di “Currents”, ma punta sulle melodie (e non sui testi) e crea, più che altro, un ambiente sonoro. Funzionerà anche per gli stadi – a volte si ha l’impressione che sia stato pensato per quello – senza chiedere al pubblico di ballare. Del resto, la leggera meticolosa tristezza che pervade ogni canzone, lo impedirebbe comunque.