Puoi vestire bene quanto ti pare, o male per quanto non te ne curi o non puoi curartene, puoi indossare l’ultimo o il penultimo capo nella discendenza della moda alta e media, o le pezze afflosciate sui gradini più bassi della scala sociale degli stracci, puoi metterti addosso quello che vuoi. Sai cosa si vede? La parannanza, il sinale, il grembiule, il grembiale, antimacchia, antischizzo, antiunto, antitutto. E non so parlando di chi li indossa davvero, sto parlando di chi li indossa sul serio, perché pararsi è una cosa seria. Sono spariti gli antichi mestieri? Non sono spariti. Sempre si sta sulla soglia di una propria bottega. Hai una serata all’Opera? Bene. Sei ministro? Io vedo in te un calzolaio che viene a teatro con tutto il suo locale appresso, perlomeno l’ingresso, i piedritti e l’architrave e la soglia, e incede come incorniciato, in smoking, ma col grembiale addosso e la pettorina sopra lo sparato. E tu, per questo, hai tutto il mio rispetto, sei utile al cammino degli esseri umani sulla terra, o calzolaio.
Fateci l’occhio e, vedrete, si vede. Si vede: la vita si affronta col piglio di un mestiere, figurando la capacità artigiana di produrre beni e servizi. E allora, sei sottosegretario? Fidati, fa’ vedere che sai esercitare un’attività, un’arte, che sai anche riparare, o rappezzare almeno. Così come – e nemmeno te ne accorgi – fai. Si vede che sei un maniscalco. Da che? Dal sinale giusto che indossi, atto all’uopo. Ti sto dando ragione, non vai in giro senza metterti addosso qualcosa di protettivo che ti pari il davanti. L’abito, solo l’abito?
Ma l’abito, si sa, è di confezione. È come la carta e il nastro attorno alla guantiera delle paste, le paste d’uomo che sei, anche le lasagne dei tuoi strati di vita, con dentro le creme, la besciamella, i condimenti dei tuoi sbrodolamenti. Se non è oggi è domani ma un uomo prima o poi si racconta ossia si versa addosso il sugo di cui è fatto e il brodo in cui s’è cotto. Lo riconosci dal bavaglino al collo. Così, dalla sopravveste protettiva, riconosci che lavoro fa. Lo sai anche tu, anche tu altro che fai il consulente finanziario. Cos’hai sopra i tuoi bei bottoni abbottonati? Quella specie di tenda da panza maestosa e vasta del norcino, vieni sempre fuori da una antica suineria; ho detto antica, sto parlando di storia.
È così, la vita è una via di negozi, tutti stanno sull’uscio, è così, tutti lo sanno, quel che non si sa è che tutti lo sanno ma, quando le braccia si allungano per darsi la mano, si sente, si sente il fruscio del grembiale calato sul frontespizio umano, facciamo a capirci. Quanti mantili da sarto vedo in giro? Persone che ci tengono a far vedere che sussurrano, che sono miti e trattano in punta di spillo ogni piega che prende la cosa, in un quasi silenzio di stoffa, o no? Quel gessetto, lo so che ce l’hai, non ti dico di farmelo vedere, non voglio metterti a nudo, ma so che ce l’hai.
Lavori allo sportello, sì, lo so, è dura, vorresti srotolare un principe di Galles e passarci sopra il palmo della mano all’andata del gesto, e il dorso al ritorno, ah, quel gesto, ti capisco, ti capisco perché sarto lo sei, protetto dal bel mantile scuro con un istrice alla cinta, il puntaspilli, sì, lo so, si vede, si vede che sei sarto. E tu, tu altro ancora? Beccaio, fatti dire, sei beccaio, certo che si vede, piume, sangue pennellato e a gocce, qualche pelame, l’arte del beccaio sul tuo velaccio, l’arte, come no, sembra un quadro recente il tuo grembialone gonfio ma, fidati, ti vedo venire avanti dai tempi di Brillat Savarin, c’è del reazionario in te, o rivoluzionario culinario.
Sei libero professionista? E io che ho detto? Beccaio, appunto, piacere! Nel ramo? No, non voglio sapere quale è il tuo posatoio, o beccaccino, libertà, libertà. Tu altro sei impiegato, impiegato in generale, mi basta, perché so che tu, con quel mantesino da orafo, sei orafo appunto, e lavori di fino, lavori in filigrana, anche la nebbia al mattino la trafori fantasticando gioielli di giornate dorate di sole, andando al lavoro in qualche ministero. Tu incastoni, sì, anche incastoni, certo, incastoni sogni duri, testardi come le pietre preziose ma dure, un pregio e un difetto dei sogni preziosi (ma duri).
Vedo molti piazzisti, molti piazzaroli, dimostratori di destrezze cuciniere coi sinalini a fiori da massai massivi ammassati: fritture dei loro pesciolini, ortaggi tagliati a boccoli d’arcangelo, cotture d’ogni cosa senza sale, però molta furbizia contro i furbi, antiaderenti opportunismi antiopportunisti, sorrisi lessi e vapore molto, banditori col tamburo sul davanti, una tonda pelle tesa, un sinalino che fa bum bum. Insomma, così è, potrei continuare perché dappertutto vedo parannanze, sinali, grembiuli, grembiali, portati come tende, come vele, siparietti e sipari con dietro l’attor solo, e anche timido e anche un poco trepidante e pavido, ma quella copertura lo fa mastro esercente, capoccia, padrone d’esercizio.
Così è, fateci caso che così è. Facciano pure quel che gli pare, esercitino, dirigano, siano amministratori o amministrati, siano di concetto o concettuali, siano esatti o vaghi, usino l’intelletto o siano soltanto intellettuali, gli uomini non sono che antichi mestieranti. Adesso comunque lo sapete, e li vedrete, vi vedrete tutti col grembiule, col grembiale, col sinale, co’ la parannanza, il velaccio, il mantile, il mantesino. La vostra, la loro prova di forza è in quella pezza o pelle a protezione delle coglie: molto spessa per il freddo e son cocchieri, oppure nuvolosa e son mugnai, con sopra le ditate e son dolciai, con sopra un po’ di paglia e son sediai, ma pure scopettai, eccetera eccetera, chiodai, sellai (ma perché mi paiono passati remoti, perché mai?). Cos’è? Son tutti uomini? “E le donne?” Chi è che ha detto donne? Ma perché, le donne portano la parannanza? Qualsiasi cosa portino le donne la portano a miracol mostrare che son donne. E la sanno portare che appunto non si vede.