Non è la fine del mondo. È la fine del mondo che conosciamo. Quando la crisi sanitaria, addirittura umanitaria in alcune zone della Lombardia, diventerà gestibile e saremo costretti ad affrontare le macerie sociali causate dal virus, ci accorgeremo che la corona economy non sarà una semplice evoluzione dell’esistente, ma un cambiamento epocale della nostra società. È come se il virus stesse eliminando fisicamente e materialmente le ultime sacche di resistenza alla rivoluzione digitale, le persone anziane e i comportamenti analogici, completando definitivamente il rovesciamento radicale del vecchio mondo causato da Internet.
Dopo il virus, non solo cambieremo abitudini e consumi, ma diventeremo un popolo pienamente digitale. Il New York Times e il Wall Street Journal in questi giorni avvertono i lettori che nessun essere umano ha toccato la copia fisica del quotidiano che viene consegnato davanti alla porta degli americani, tranne il delivery boy obbligato a indossare guanti e maschera. La famigerata previsione secondo cui l’ultima copia cartacea del New York Times sarà venduta nel 2043 non sembra più avventata, semmai fin troppo ottimista.
Amazon e i servizi che portano a casa il cibo hanno modificato le interfacce delle loro app per inserire le istruzioni per la consegna dei pacchi, con il divieto per i fattorini di suonare il campanello o il citofono salvo espressa richiesta del destinatario. Ci sarà un repentino abbandono di chiavi e maniglie a favore delle aperture delle porte con il riconoscimento facciale o via smartphone. Improvvisamente tutte quelle assurdità sulla consegna della spesa o della posta con i droni sembrano argomenti sensati. Perché far entrare in casa un estraneo a fare le pulizie quando i robot già comunemente in vendita aspirano la polvere e lavano i pavimenti?
Lo streaming ha dato una botta pesante alle sale cinematografiche, il virus probabilmente le manderà per sempre in pensione. I genitori manderanno ancora i figli in discoteca, anche dopo aver superato l’ansia delle droghe e della sbronze, col rischio che invece che una pasticca si possano involontariamente prendere il virus?
L’e-learning, la scuola e l’università a distanza, sono diventati forzosamente e in pochi giorni la realtà quotidiana per gli italiani di ogni ordine e grado, così come le perizie delle banche per concedere i mutui. La medicina sarà sempre più a distanza, per tenersi lontani da altri pazienti potenzialmente contagiosi proprio mentre si è più deboli.
Le aziende grandi e piccole hanno immediatamente capito che possono fare a meno se non degli interi uffici perlomeno dei metri quadrati per ospitare tutti i dipendenti, l’evoluzione finale del processo che ha già eliminato le scrivanie per sostituirle con la rotazione first-come-first-served. I talk show potranno fare a meno del pubblico, lo sport professionistico sarà definitivamente un evento televisivo perché il social distancing cambierà le fondamenta della repubblica degli eventi su cui è fondata la nostra società. Non seguirà buffet, vade retro finger food. Le maison di moda creeranno mascherine e guanti cool, quelle di fast fashion le replicheranno per il popolo. Vivremo contact-less, non solo per effettuare i pagamenti, ma gradualmente in tutti gli aspetti della società post coronavirus. «It’s the end of the world as we know it», cantava Michael Stipe dei R.E.M, «and I feel fine». Il mondo che conosciamo è finito, e mi sento bene. Un po’ come un vinile.