I video di rianimatori e infermieri si ripresentano puntuali sulle pagine di media e social network. I loro appelli, con il messaggio di stare a casa il più possibile, perché «qui non ce la facciamo», risuonano con costanza. Sappiamo che stanno lavorando a ritmi impensabili, sostenibili chissà ancora per quanto, e che non ci sono abbastanza letti né materiali sanitari: se collassa il sistema, il Paese dovrà fare i conti con un numero ancora più incalcolabile di morti. Eppure, dei medici e del personale sanitario all’interno degli ospedali non si parla abbastanza. Già il 10% di loro è infetto (quasi 5000 sono contagiati, tra cui molti medici di famiglia), 29 sono morti, e il conto aumenterà. Ma se le persone più essenziali in questo momento sono anche quelle più esposte al contagio, un problema bisogna porselo, perché le conseguenze le pagano – e le pagheranno – tutti.
«I reparti sotto stress sono quasi tutti, pronto soccorso, malattie infettive, terapia intensiva, strutture diagnostiche, radiologia e così via. Soprattutto Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna soffrono di questo impatto micidiale. Ci sono colleghi che non si fermano da giorni, è saltato il riposo notturno, così come i riposi settimanali e le ferie», dice a Linkiesta Carlo Palermo, segretario nazionale dell’ANAAO, il principale sindacato dei medici e dirigenti sanitari del Servizio Sanitario Nazionale. Molti di loro si sono spostati in seconde case o addirittura in hotel, come quelli del Sacco di Milano; troppo alto è il rischio che infettino anche i propri familiari. «Manca il sostegno non dico degli amici, ma dei figli, della moglie o del marito», dice Palermo.
Da settimane lavorano come macchine, con il rischio che la stanchezza li porti non solo a commettere errori, ma a cedere. Iconica è stata la fotografia dell’infermiera addormentata, esausta, sulla sua scrivania; maschera in realtà una vera e propria tragedia. Perché lo stress ha conseguenze anche dal punto di vista psicologico. «Abbiamo notizie di un’infermiera in prima linea che si è suicidata», riporta Palermo.
Sebbene i medici e gli operatori sanitari siano mossi da un innegabile e inesauribile senso del dovere, a maggior ragione in quest’emergenza, in corsia manca ancora praticamente tutto. E se sappiamo che sono loro naturalmente i più esposti al contagio, lo sono anche perché a mancare sono le basi di ciò che lo Stato e le Regioni dovrebbe garantire loro in una situazione simile, cioè dispositivi di protezione (DPI) e tamponi. «I DPI non erano stati immagazzinati come in Corea, siamo stati sfortunati perché la produzione è soprattutto in Oriente, in Vietnam e Cina. L’epidemia è arrivata prima in quelle zone, e sono stati bloccati», spiega Palermo.
Per Giovanni Leoni, chirurgo generale vicepresidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), è imperativo «fare la riconversione industriale delle fabbriche più simili». Mascherine, camici, visiere, guanti, calzari: tutto manca, tutto serve. Impossibile affidarsi unicamente alle vendite dall’estero: c’è bisogno di una produzione massiva sul territorio nazionale.
Ma il problema dei tamponi per diagnosticare il contagio tra gli operatori è, se possibile, ancora più devastante. Tre giorni fa il ministero si è salvato all’ultimo momento, diffondendo una circolare che correggeva quella precedente del 19 marzo (che dava priorità di risultato ai militari e ai loro familiari) e che afferma: «Nei laboratori autorizzati per le analisi dei tamponi la presentazione di campioni afferenti a personale sanitario dovrà ottenere priorità assoluta e la comunicazione dovrà avvenire in un arco di tempo massimo di 36 ore». Fatto sta che l’articolo 7 del Decreto-legge del 9 marzo 2020 «dispone che i sanitari esposti a pazienti COVID-19 non siano più posti in quarantena, ma continuino a lavorare anche se potenzialmente infetti. La sospensione dal lavoro è prevista solo se sintomatici o positivi», riporta il sito dell’ANAAO.
Ciò significa che a medici e operatori il tampone non viene deliberatamente fatto finché non presentano sintomi rilevanti. «Lavorare finché non sorgono sintomi respiratori importanti mi sembra assurdo», denuncia Palermo. «Rischiamo di infettare colleghi esposti in prima linea, infermieri, operatori sanitari e pazienti, indebolendo la capacità di risposta. Stiamo rischiando di trasformare l’ospedale in una fonte di contagio». La scelta appare deliberata. Secondo il segretario, la ragione è semplice: «Se dovessero fare il tampone a tutti, dovrebbero mandare il 30-40% del personale in isolamento, significherebbe chiudere interi ospedali», spiega Palermo. «Una soluzione va trovata, bisogna fare a tutti il test, che sia ematico o tramite il tampone, in modo da poter dare una risposta. Bisogna evitare che chi lavora in ospedale possa essere a sua volta contagiato da colleghi e collaboratori. Non è giusto, né efficace. Preservare gli operatori sanitari come dice l’OMS è fondamentale, sono quelli più preziosi».
Due infermiere si abbracciano in un corridoio dell’ospedale di Cremona, il 15 marzo 2020 (PAOLO MIRANDA / AFP)
Secondo Michele Usuelli, medico e consigliere regionale lombardo di PiùEuropa/Radicali, gli ospedali sono in realtà già una fonte di contagio: «Una delle ragioni per l’iniziale esplosione di Covid-19 in Lombardia ed in altre regioni è stato il contagio comunitario, in particolare negli ospedali», scrive in un comunicato. «Anche quando il virus si è diffuso e la crescita dei casi avviene soprattutto in ambito extraospedaliero, all’interno degli ospedali si mantiene una rapida cinetica di infezione ad alta carica virale che coinvolge e decima il personale sanitario ed i pazienti già ricoverati, aggravando la crisi epidemica. Ad oggi in Lombardia su 100 positivi, 12 sono personale sanitario».
È proprio per queste ragioni che 45mila tra medici, infermieri e dirigenti sanitari hanno sottoscritto la petizione promossa dall’Anaao Assomed, sottoscritta da tutte le sigle sindacali della dirigenza medica e sanitaria e indirizzata al presidente del Consiglio e al ministro della Salute, per richiedere DPI idonei per gli operatori sanitari e tamponi costanti per tutto il personale. Alla petizione sono seguiti esposti alla Procura della Repubblica e diffide alle aziende sanitarie, più l’annuncio di uno sciopero simbolico di un minuto da parte di tutte le sigle sindacali. Palermo ha anche scritto una lettera in proposito: «Ho detto che non vogliamo essere eroi né martiri, vogliamo lavorare in sicurezza, vogliamo impegnarci, ma metteteci nelle condizioni di poter lavorare. Garantiteci i DPI e riscontri diagnostici in caso di esposizione».
Secondo Palermo, l’esposizione al virus dovrebbe essere seguita da 3 giorni di isolamento e poi un tampone con risposta rapida, 5-7 ore al massimo, decidendo poi se ritornare al lavoro effettuando un altro tampone, oppure rimanere in isolamento se positivi. Fino ad ora, nulla di tutto ciò è stato fatto: il tampone sui sanitari viene operato soltanto in caso di sintomi gravi. «Abbiamo pagato in passato la carenza di personale, decine di milioni di ore straordinari spesso nemmeno retribuiti, e ora paghiamo la carenza del sistema diagnostico non solo con un sovraccarico di lavoro, ma con il contagio e persino la morte. Le conseguenze sono disastrose. Io spero che possa essere risolto, che ora si senta di più la solidarietà del governo, delle regioni, delle aziende sanitarie. È un fronte che sta sopportando carichi di lavoro impensabili», dice Palermo.
Secondo Usuelli, la messa in sicurezza delle strutture ospedaliere è essenziale: «Più medici, ventilatori e letti servono a migliorare la situazione dei pazienti in una situazione di crescita lineare, ma non possono tener dietro ad un incremento che è stato esponenziale: stiamo correndo una maratona dietro al virus, che però guida una Ferrari. È necessario completare la strategia regionale di contenimento con alcune misure specifiche». Per il consigliere, diverse sono le azioni che andrebbero adottate. La prima è un cambio di mentalità: «Chiunque, a qualunque titolo entri in ospedale deve essere considerato e considerare se stesso potenzialmente infetto. È indispensabile l’autocontenimento del personale sanitario, cui è necessario offrire strutture ricettive specifiche per ritirarsi dopo il lavoro, evitando così il fai da te domestico ed aiutandolo a non contagiare le famiglie».
Per Usuelli gli ospedali vanno protetti, e bisogna lavorare affinché smettano di essere luoghi di propagazione del contagio: «Chi entra in ospedale deve essere tracciato in tempo reale, anche con app simili a quelle che usano i riders. I sanitari devono essere sorvegliati con tamponi seriali. Indipendentemente dalla capacità di ogni regione nel restituire il risultato del tampone, la priorità insieme al paziente sintomatico in pronto soccorso e ai ricoverati deve essere il tamponamento del personale sanitario. L’ospedale deve diventare un luogo compartimentato in ogni modo possibile: neolaureati e studenti di medicina formati devono essere i guardiani a tutte le porte di un ospedale (non solo quelle esterne), dirigendo il flusso di chi può entrare e uscire. Oltretutto, aiuteranno in questo modo il personale esperto a risparmiare tempo, per esempio controllando vestizione e svestizione». Infine, «non è troppo tardi per fare training al personale sanitario su come proteggersi; su cosa fare e non fare».
La situazione è critica: alle restrizioni per tutti i cittadini, con controlli di polizia e multe severe per chi viola la quarantena, non stanno corrispondendo meccanismi di contenimento altrettanto efficienti all’interno delle strutture sanitarie. «E dire che a fine febbraio si discuteva se fosse opportuno usare le mascherine al pronto soccorso, perché si metteva ansia ai pazienti», commenta caustico Leoni. «Nelle altre parti di Italia, soprattutto in Lombardia, sotto le pressioni dei politici e degli interessi economici e industriali, abbiamo messo in atto le misure solo progressivamente, sulla base delle evidenze, fino ad arrivare ad una chiusura efficace. Il picco lo vedremo tra 15 giorni o anche un mese a seconda delle zone. Ma adesso subiamo la diffusione prodotta venti giorni fa. Sono preoccupato perché, nonostante in Lombardia il virus sia ancora confinato a città medie e piccole, come Bergamo, Cologno Monzese, Lodi, la nostra capacità è già al limite. Non possiamo permetterci di perdere Milano. L’isolamento è imperativo, altrimenti la gente morirà e ne morirà tanta. Se aumentiamo il numero di contagiati non ci saranno letti di rianimazione per tutti, e non possiamo permetterci che al Sud capiti quello che è successo al Nord. A Trapani, su un territorio di 250mila abitanti, ci sono 8 posti di rianimazione».
La situazione, inutile dirlo, è figlia di anni di gestione insostenibile. «Bisogna andare a 10 anni fa, alla crisi finanziaria e alle scelte che sono state fatte. La bolla finanziaria è stata fatta pagare ai sistemi di welfare», spiega Palermo. «Prima dello spartiacque del 2009 il sistema di finanziamento del sistema sanitario nazionale cresceva del 3% ogni anno. I dati dal 2010 al 2019 invece ci dicono che è cresciuto dello 0.9% all’anno. L’unico governo che ha incrementato in modo sostanzioso è stato quello Letta, di 2,9 miliardi», dice Palermo.
Un medico controlla un paziente affetto da Covid-19 nel nuovo reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Brescia, il 17 marzo 2020 (PIERO CRUCIATTI / AFP)
Due le principali conseguenze del sottofinanziamento, che patiamo anche durante quest’emergenza. La prima è una riduzione dei posti letto, avviata già dal 2002-2003, quando l’Italia ancora ne aveva 300mila. «Tra il 2010 e il 2019 calo è stato di 40-45mila posti letto», spiega il segretario. Ad oggi, i posti letto per acuti ospedalieri nel nostro Paese sono 3,2 per mille abitanti (la Germania ne ha 8×1000). Peggio di noi, in Europa, fa solo l’Inghilterra. L’altro elemento è la riduzione progressiva del personale. «Il punto più alto negli ultimi 15 anni è stato nel 2009-2010», dice Palermo.
Da allora, c’è stata una lenta e progressiva riduzione, fino al quarto governo Berlusconi che ha bloccato il turnover. Risultato, le aziende sanitarie non hanno più sostituito medici e infermieri che andavano in pensione. «Dal 2009 al 2017, la riduzione è stata di 46mila addetti, di cui 10mila tra medici e dirigenti sanitari, più 36mila di tutto il resto, in particolare infermieri, fisioterapisti, operatori sanitari», spiega il segretario ANAAO. Il valore della perdita è di 2,5 miliardi ogni anno. Perentoria la conclusione: «Il personale è stato il bancomat con cui le regioni e le aziende sanitarie hanno raggiunto l’equilibrio di bilancio. La macchina della sanità pubblica è stata spinta al massimo, anche oltre le proprie possibilità, secondo un principio di neofordismo organizzativo. Ma questo non significa perseguire la salute dei cittadini».
Prima della pandemia, l’emergenza in cui versava il sistema sanitario era visibile in modo evidente soltanto d’estate, a causa dell’elevato numero di ricoveri dei tanti anziani in sofferenza a causa del caldo. Il Covid-19, invece, ha reso le mancanze croniche, e sotto gli occhi di tutti. Per rimediare l’unica possibilità è assumere nuovo personale: «In quel caso, le flessibilità organizzative aumenterebbero», spiega Palermo, anche se non sembra convinto che i contratti libero-professionali a tempo determinato offerti da molte regioni in queste ore rappresentino una valida soluzione: «Chi potrebbe accettare un contratto di questo genere, a fronte di questi rischi? Bisogna cambiare totalmente approccio, siamo in una specie di guerra».
Il governo ha deciso di aprire le porte ai neolaureati, decisione pericolosa in termini di efficientamento del sistema, a detta di tutti gli esperti: «sono matricole buttate al fronte in una situazione per cui serve tutoraggio e protezione adeguata», dice Leoni. Rischio ugualmente alto per i medici pensionati, cui è stata data la possibilità di rientrare in servizio: «Ben venga se se la sentono. Ma noi abbiamo l’età media più alta al mondo dei medici ospedalieri, oltre 50 anni. E chi viene colpito oltre i 65 anni avrebbe qualche rischio supplementare in caso di patologia grave pregressa», aggiunge Palermo.
Piuttosto, bisognerebbe puntare sugli specializzandi che sono ormai quasi alla fine del proprio percorso, o su quelli specializzati di recente. «Il ministero dell’Istruzione mette i paletti, ma siamo in una situazione emergenziale. L’Economia pone problemi sulla prospettiva di spesa, cose insensate perché tra il 2020 e 2025 andranno in pensione 40mila medici. Perché abbiamo paura di assumerne 5-10mila oggi?», si chiede il segretario dell’ANAAO. A fronte di condizioni soddisfacenti – procedure veloci di assunzione, contratti di almeno due anni, con valutazione prima di passare al tempo indeterminato, più potenzialmente un’indennità di rischio biologico, secondo Palermo – si potrebbero trovare nuove risorse e dare il cambio a colleghi già stremati. Necessario sarebbe anche aumentare le borse di specializzazione, che da anni patiscono la mancanza di finanziamenti. «Noi abbiamo chiesto di portare per due anni il finanziamento delle borse a 14mila (9mila sono quelle attuali), per il 2020 e 2021», precisa il segretario ANAAO.
Di più bisogna fare per sostenere medici e sanitari e aiutarli nel proprio lavoro in questa emergenza. Cambiare prospettiva su di loro è essenziale in tal senso. Non sono eroi, non sono angeli, non sono martiri: sono professionisti che fanno il proprio dovere, rendendo onore al loro mestiere e al loro Paese. Ma questo non significa che debbano sacrificare la propria vita per farlo. «Settant’anni fa gli alpini sono stati mandati a morire sul Don senza equipaggiamento», dice Leoni. «C’è questa idea che c’è gente che deve essere sacrificata, perché è già successo. Qualcuno che lucidamente ha mandato persone al fronte a morire. Adesso li mandano a combattere mentre stanno seduti in ufficio. Il messaggio è per quelli dell’ufficio, di proteggere chi va a combattere al fronte. Non è giusto che medici, anche di famiglia, e operatori vadano a morire perché sono soli a curare i loro pazienti».