Sguardi reciprociCosì il virus ci sta facendo diventare tutti un po’ orientali

Lasciamo le scarpe davanti alla porta, ci salutiamo con un inchino, rispettiamo lo spazio del prossimo e ci sforziamo di accordare il nostro comportamento a quello degli altri. Persino noi italiani

(CHARLY TRIBALLEAU / AFP)

Sabato mattina la spesa settimanale toccava a me, e così sono uscito per comprare cibo e giornali. Mentre scendevo le scale ho notato diverse paia di scarpe lasciate davanti alla porta dei miei vicini; avvicinandomi all’edicola ho visto un uomo proveniente dalla direzione opposta rallentare appositamente per cedermi il turno, invece di accelerare per soffiarmelo, mantenendo una certa distanza; il fruttivendolo, dopo avermi consegnato le buste della spesa, mi ha salutato con un leggero inchino.

Tornato a casa ci ho pensato su e sono giunto alla conclusione che il virus venuto dall’Asia ha prodotto un clamoroso contropiede nella storia della cultura e del costume: dopo secoli in cui il processo si era sviluppato nella direzione opposta, stiamo assistendo alla progressiva orientalizzazione dell’occidente. E non si tratta solamente di gesti e formule di cortesia, come il passare dallo stringersi la mano all’inchino, o imparare a fare una fila e più in generale a rispettare lo spazio degli altri.

A giudicare dalla disciplina e dal rigore con cui la stragrande maggioranza dei nostri concittadini ha accettato e persino introiettato le misure restrittive decise dal governo, verrebbe da pensare che di colpo siano diventati tutti politicamente confuciani e filosoficamente taoisti. E non solo in Italia, come testimonia l’incredibile uniformità con cui un certo modo di reagire, identificarsi e farsi forza collettivamente si è diffuso per ondate successive, di pari passo con l’espandersi dei contagi, dalle finestre di Wuhan ai balconi delle città italiane, e poi spagnole, francesi, israeliane.

Ma certo è un fenomeno particolarmente impressionante in Italia, dopo tanti dibattiti sull’individualismo anarchico, il ribellismo congenito e il familismo amorale di un popolo da sempre descritto come interessato solo al proprio particulare, e perciò incapace di farsi davvero nazione. Da questo punto di vista, si direbbe che l’emergenza sanitaria abbia profondamente modificato una plurisecolare scala di valori. Una scala in cui oggi, se non balzano proprio ai primi posti, rimontano senza dubbio diverse posizioni l’autodisciplina e la responsabilità nei confronti della collettività, unite alla capacità di accettare anche le prove più dure senza perdersi d’animo e senza farsi trascinare dall’emotività, ma con serenità e compostezza.

Si potrebbe persino parlare di uno slittamento, per usare le famose categorie applicate al Giappone dall’antropologia occidentale, da una cultura della colpa a una cultura della vergogna, almeno a giudicare da come la piccola minoranza dei runner incalliti (convinti di essere nel loro pieno diritto fintanto che la corsa non era espressamente vietata) sono stati additati da molti alla pubblica esecrazione, proprio per l’atteggiamento individualista e indifferente all’effetto che la loro condotta poteva avere sugli altri.

Con eccessi in entrambe le direzioni, nelle aggressioni verbali e non solo verbali contro il capro espiatorio in tuta e scarpette da ginnastica da un lato, dall’altro nell’improvvisa fioritura di una diffusa cultura garantista, del rispetto della privacy e della sfera intima anche nei più insospettabili (persino Marco Travaglio ha preso le loro difese), in un paese in cui si considera normale pubblicare paginate di intercettazioni telefoniche che niente hanno a che vedere con il reato (anche perché molto spesso non c’è, né nelle intercettazioni, né in tutto il resto dell’inchiesta).

Del resto, non è l’unico né il più traumatico dei clamorosi rovesciamenti di ruoli, posizioni consolidate e riflessi condizionati cui abbiamo assistito in queste settimane: dagli italiani bloccati sulle navi in Africa, messi in quarantena per il timore che portassero malattie, ai cittadini del nord malvisti per lo stesso motivo nel mezzogiorno.

E così abbiamo scoperto anche l’importanza di un’altra distinzione orientale, la cui definizione personalmente ho appreso dal bel libro di Marcello Ghilardi dedicato alla cultura giapponese, La radice del sole (Longanesi): quella tra manazashi (眼差し) e omozashi (面差し), tra lo sguardo inteso come atto monodirezionale, che va da un soggetto a un oggetto, e lo sguardo in cui c’è al contrario uno scambio e un riconoscimento reciproci, in cui l’oggetto dello sguardo diventa a sua volta soggetto e trasforma l’osservatore. Tra lo sguardo della folla, delle persone dietro le finestre, degli osservatori e dei giudici, monodirezionale e spesso velato dal pregiudizio, e quello dell’incontro, dell’apertura e del riconoscimento reciproco.

Può darsi che una volta passata l’epidemia, con il venir meno dell’esigenza pratica che ha indotto tali cambiamenti, torneremo alle antiche abitudini. In parte accadrà di sicuro, ed è un bene. Fino a che punto, e quanto invece di questa esperienza sia destinata a segnare più a lungo il nostro modo di comportarci, è più difficile dire. Ma forse anche in questa immensa tragedia c’è qualche lezione da trarre, e di cui sarebbe bene fare tesoro.

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