Il mondo visto dai marginiL’arte è un pretesto per parlare della vita. Perché “Volevo nascondermi” è il film più bello uscito finora

ll capolavoro del regista Giorgio Diritti racconta, con una interpretazione strepitosa di Elio Germano, la vita del pittore Antonio Ligabue. Un affresco della sua affermazione di artista sullo sfondo di una campagna emiliana ordinata e crudele

immagine tratta da Flickr

Basta qualche minuto di visione di “Volevo nascondermi” il film di Giorgio Diritti sul «genio infelice» Antonio Ligabue, per dimenticarsi tutti gli intralci sorti dal coronavirus, rinvio della prima compreso, con tanto di (semi)chiusura dei cinema in mezza Italia. Si impone la storia, sorretta dall’interpretazione di Elio Germano (si sono già espressi a Berlino, con l’Orso d’argento: ogni altro complimento appare superfluo) e soprattutto prevale il personaggio. Il Ligabue di Diritti è un essere bizzarro, sghembo, sempre privo di «un posto nel mondo»: espulso dalla Svizzera, luogo in cui era nato e cresciuto e dove era stato affidato a una famiglia di contadini, finisce nel paese d’origine del suo padre biologico, Gualtieri, nella pianura emiliana delle parti di Reggio.

Qui è lo scemo del villaggio, l’oggetto di scherzi di adulti e ragazzi, isolato da una estraneità selvatica e bestiale. Eppure, nonostante i grugniti con cui (non) si esprime, conoscendo all’epoca solo il tedesco, ha dalla sua la benevolenza di poche persone di buon cuore e, soprattutto, l’arte, che prima lo renderà «un personaggio del Po», cioè lo farà entrare in un documentario sulla bassa, poi lo renderà famoso e ricco.

Qui finisce la storia. E comincia il film, che è in gran parte di Giorgio Diritti. Da tempo il regista bolognese ha affermato una poetica personale, costruita intorno ad ambientazioni rurali (ci sono anche qui), personaggi al limite (il pittore, senza dubbio), ostilità tra microcosmi compatti e diversi sradicati (caso da antologia). Se in “L’uomo che verrà”, del 2009 il ruolo toccava alla piccola Martina, resa muta dalla morte del fratellino prima della strage di Marzabotto, con “Volevo nascondermi” è tutto Ligabue: la lingua sporca che impasta tedesco ed emiliano, la gestualità intensa e sgraziata insieme, la consapevolezza di una sorte impensabile. Ne va orgoglioso: «Sono un artista», ripete sempre. Per un nonnulla, una critica mal indirizzata, una presa in giro, è pronto a infuriarsi e distruggere le sue opere.

Sa che quello è il suo ruolo nel mondo, la sua dote naturale. E i quadri la sua unica moneta con cui può tenersi fuori dai manicomi e soprattutto comprarsi affetto e beni materiali. Li promette in cambio di motociclette (sua enorme passione) e li usa per sedurre, senza riuscirci, donne distratte e troppo lontane. Ad altro non servono: il suo Ligabue fugge dalla mostra di Roma («I quadri si vedono, non c’è niente da dire»), un traguardo, e si rifugia sul ponte di Castel Sant’Angelo, dove si sfila le scarpe perché gli fanno male. Lui vive una vita parallela.

Il resto del film appartiene a Germano. Suoi i movimenti impacciati e animaleschi, in profondo contrasto con la solida geometria delle campagne emiliane. Sue le contorsioni improvvise, le linguacce fatte alle sculture, la mimica da albatros baudeleriano, i borbottii, il colpo di genio di mescolare dialetto emiliano a un “grazie” segnato dalla erre tedesca.

Ma attenzione: siamo sempre nell’universo di Giorgio Diritti, dove le vite ai margini restano ai margini. Non esiste integrazione. E in questo senso il miracolo più importante per Ligabue, quello di entrare davvero in rapporto con gli altri, fallisce. Diventa ricco, ma resta sempre «un artista», che a luglio va in giro con il cappotto, che mangia su un tavolo separato. Voleva nascondersi, ma è stato stanato. Eppure, impresentabile quasi sempre, rimarrà solo un «personaggio del Po». Sulle cui rive disegna, soltanto con un bastone, opere meravigliose.

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