Eterno ritorno Quando Giuseppe Belli raccontò in romanesco l’epidemia in cui morì anche Leopardi

Il poeta fissò in versi “Er collera mòribbus”, il contagio che colpì tutta Italia tra il 1835 e il 1837. Gente che finisce al cimitero in massa per una malattia venuta dall’Oriente, Roma senza messe e senza feste per l’epidemia e lavoratori preoccupati: «Morire di malattia o di fame?»

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La gente che finisce al cimitero in massa per una malattia venuta dall’Oriente. Roma senza messe e senza feste per l’epidemia. I lavoratori preoccupati: «Morire di malattia o di fame?». I politici che prendono misure di cui non si sa l’efficacia. Le informazioni nascoste. Le polemiche su quanto sta succedendo all’estero. E i Social scatenati in cui si scambiano notizie vere e fake: queste ultime anche in chiave di improbabili “dritte” su chi ci sia veramente dietro, o sui modi più infallibili per non infettarsi o per guarire…

No. Non stiamo parlando del coronavirus, è a essere fiscali nell’epoca di cui stiamo parlando non c’erano i social di oggi, stile Facebook o Whatsapp. Però c’era l’osteria, che in qualche modo ne faceva le funzioni. Anzi, sono i social d oggi a ricostruire in senso virtuale quello che una volta si diceva davanti a un boccale di vino. Ed è appunto una «Converzazzione a l’Osteria de la Genzola Indisposta e ariccontata co trentaquattro sonetti, e tutti de grinza» che Giuseppe Gioacchino Belli utilizzò per raccontare Er collera mòribbus. Quell’epidemia in cui il 14 giugno 1837 morì pure Giacomo Leopardi.

Copia e incolla dal Vocabolario Treccani: «Cholera morbus ‹kòlera …› locuz. lat. scient., usata in ital. come s. m. (anche semplicem. cholera). – Nome, oggi non più in uso, del colèra, che ebbe in passato, anche in ital., le varianti grafiche e fonetiche chòlera e cholèra». Ma cholera nella espressiva storpiatura popolare romana diventava «collera»: sottinteso «di Dio contro i peccatori», il che serviva alle autorità pontificie per alleviare in qualche modo le proprie responsabilità, e anche alla gente per farsene una ragione. E «Mòribus significa se more», scrive Belli in nota. Quel romanesco pre-Unità nazionale era molto meno italianizzato di quello di oggi: il confronto con i versi di Cesare Pascarella e poi di Trilussa permette di cogliere bene l’evoluzione. Anche un romano dell’anno 2020 può dunque avere bisogno della traduzione: «Conversazione all’Osteria della Giuggiola», che si trovava in Trastevere. «Disposta e raccontata in trentaquattro sonetti e tutti di vaglia».

Scritti tra 4 agosto 1835 e 24 dicembre 1836, nelle raccolte di Sonetti di Belli sono però messi in genere in appendice, dopo l’ultimo del 21 febbraio 1849. Cominciano con un avventore che spiega con tono ben informato che il «còllera o o collèra», comunque lo si chiami, «qui da noi nun ce viè, sippuro è vera». Sì, dicono che a Nizza sta facendo «piazza pulita». Ma è «seggno che questi matti maledetti/ Nun ze sanno avé cura della vita». Non è che mangino topi vivi come i cinesi, ma non hanno quella cura della pratica religiosa che a Roma il governo pontificio impone, e che tiene lontani dalla «collera» divina. Invece la «collera» si scatena lo stesso, e costringe tutti a stare chiusi dentro. «Adesso ha da venì sto serra-serra/ De porcaccia infamaccia ammalatia», annota l’ultimo sonetto, del 24 dicembre 1836.

Già il 30 agosto 1835 il Sonetto 26 ci informa che sono stati chiusi i teatri. «Inibbì le commedie?! E che magnnera/ V’immaginate sta leggiaccia infame?/ Tanto bene, sor faccia de tigame/ S’apre er teatro, e sta notizia è vera». Ed è tragedia per il poveraccio che facendo la comparsa si guadagnava il minimo per sopravvivere: «Un povero garzon de falegname/ Che ciabbusca du’ pavoli pe ssera/ Pe nun morì domani de collèra/ S’avrebbe oggi da morì de fame?». Impagabile il racconto del «sentito dire» sui rimedi che funzionano. «Sapete er fijo de Monzù Boietto», che sarebbe il farmacista di Nîmes Monsieur Boyer, «Ha scoperto che un po’ de corallina/ È la vera e fficaccia medicina/ Pe guarì sto fraggello benedetto», informa sicuro il Sonetto 19 del 31 agosto. Ma già il 2 settembre il Sonetto 20 sentenzia che «Già è scartato er rimedio der Bojetto/ Adesso tutto era gran preservativo/ Conziste in un tamtin d’argento-vivo/ Drent’una penna che sse porta in petto». E l’11 settembre il Sonetto 21 osserva: «È una scena! Qua ognuno ha er zu’ segreto/ Chi vò er cannello, chi vò la patacca/ Chi era làvudon, chi er thè; chi una casacca/ De fanella, chi era vischio de l’abbetto».

Tra le varie cure proposte, «Una canfora, uno ojo, e un antro aceto: Questo vò che sse dormi co ‘na vacca:», la più curioosa è quella secondo cui il colera non viene alle donne incinte. «Quello dice ch’er male nun z’attacca/ A le donne che in corpo abbino er feto». Conseguenza prevedibile: «Sta vertù che ppò avè la gravidanza/ Mo ha cresciuta la rtabbia in ne le donne/ De fasselo infilà drent’a a la panza/ Per cui mariti, amichi e confessori/ Nun arriveno a ttempo a corrisponne/ A ttante ordinazioni de lavori».

Anche allora ce se la prendeva con l’Europa. «Ma tutt’a tempi nostri! E caristìa/ E libbertà, e diluvi, e ppeste, e guerra/ e la Spaggna, e la Francia, e l’Inghlterra», attacca il Sonetto della vigilia di Natale. E conclude: «Chi sta peggio di tutti è Gesucristo/ Ch’ha pperzo la novena de Natale/ Haii tempo a ffà ppresepi e accenne artari:/ Questo è er primo Natale che ss’è visto/ Senza manco un boccon de piferari». E spiega Belli in nota: «non fu dato accesso nei nostri stati ai pifferari, gente regnicola, che vengono, ogni anno a far novene». Gli zampognari venivano dal Regno delle Due Sicilie, e il confine politico permetteva di bloccare la gente in modo molto più efficace di quanto non abbiano provato a fare governatori e sindaci prima che Conte mettesse l’intera Italia ai domiciliari.

In effetti Belli scrisse quando il male ancora non era arrivato a Roma. Lettere di amici – altro Social dell’epoca – gli avevano dato però notizia che proprio in quell’agosto 1835 la «porca malattia infernale» in poche ore aveva provocato ad Ancona sette morti, con un seguito di centinaia di morti a settembre. «Er collèra sta a Napoli, fratelli», informa il primo novembre 1836 il Sonetto 33. «E sta a Gaeta e in tre o quattr’anrri lochi/ E ppe tutto li morti non zò pochi/ E l’imballeno a sson de campanelli». Il sinistro suono dei campanelli che avvisavano dell’avvicinarsi del carro dei morti: spettacolo che descrive anche Manzoni parlando dell’epidemia a Milano del 1630, in quei Promessi Sposi che escono la prima volta nel 1827 ma sono da noi conosciuti soprattutto nella edizione ampiamente rivista del 1840.

Pure Pulcinella è morto, ci informa l’ulimo Sonetto. Il 20 settembre, nel più assoluto silenzio per non allarmare la cittadinanza, a Roma è stata istituita «una commissione straordinaria di pubblica incolumità per provvedere ai possibili bisogni all’ occasione che vi si manifestasse il cholera asiatico». Da cui il Natale senza zampognari, e il 14 gennaio del 1837 la proibizione anche del Carnevale. Ira popolare, e pazciale marcia indietro con l’autorizzazione alla Festa dei Moccoletti, che ovviamente ridiffuse il contagio. Non manca il disagio nell carceri, tant’è che posti di fronte alla possibilità di scegliere il 9 febbraio 114 detenuti politici dello Stato Pontificio preferirono l’esilio in Brasile al restare in prigione in casa al rischio di ammalarsi. Ma il riconoscimento ufficiale della presenza del colera in città ci sarà solo il 18 agosto 1837 sul Diario di Roma, con la precisazione che l’indole dell’ epidemia «si mostra finora molto meno maligna di quella che nella maggior parte delle capitali europee». All’epoca lo Stato Pontificio era anche meno trasparente di quanto non lo siano oggi la Russia di Putin o la Cina di Xi Jinping.

La dichiarazione ufficiale della fine dell’ epidemia sarà il 3 novembre, e ufficialmente i morti sono 5.419. Ma il censimento di Pasqua dà nel 1837 una cittadinanza di 156.552 abitanti e nel 1838 di 148.903, per una differenza di 7.649.

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