«Addà passà ’a nuttata». In realtà nel testo di Napoli milionaria Eduardo De Filippo aveva scritto con grafia più simile all’italiano: «Ha da passà ’a nuttata». In un modo o nell’altro si pronuncia però allo stesso modo, e in molti questa frase la stanno pronunciando in questi giorni di coronavirus. Tanti altri stanno osservando che una situazione di allarme e emergenza in Italia non la si viveva da almeno 75 anni. Cioè, da quando è finita la Seconda Guerra Mondiale. Ma giusto tre quarti di secolo fa fu rappresentata per la prima vlta la commedia da cui la frase è tratta: prima al Teatro San Carlo, secondo alcune fonti il 15 marzo del 1945; secondo altre il 25 marzo, Comunque prima in realtà che la guerra finisse: il 25 aprile ci sarebbe stato almeno un mese dopo, e la resa giapponese è del 2 settembre. Forse anche questo particolare la dice lunga all’ambiguità di una frase che non è ben chiaro se indichi in realtà speranza o disperazione. Anche la notte più lunga dura solo poche ore seguite dall’alba, e quindi superarla potrebbe essere alla portata di tutti. Ma non è detto, quando si è appunto immersi in un buio che da materiale si fa anche morale.
Il conflitto, è vero, era già passato per Napoli, dopo l’insurrezione popolare contro i tedeschi del 27-30 settembre del 1943. Un simbolo di riscatto epico celebrato come inizio della Resistenza e della ripresa italiana in film come Tutti a casa di Luigi Comencini o Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, ma che in effetti nella città erano state seguite dalle pagine non esaltanti di borsa nera, prostituzione e corruzione icasticamente descritte da Curzio Malaparte in La pelle. Ed è appunto questo scenario di generale perdita di tutti i valori per via di emergenza e bisogno un’altra delle chiavi di lettura della frase: deve passare non solo la notte del pericolo, ma anche quella della morale. Però qualcuno oggi osserva che quella «nuttata» in realtà fu un periodo d’oro per la cultura di una città che divenne per un po’ la capitale teatrale e cinematografica d’Italia. Anche grazie alla mobilitazione popolare delle Quattro Giornate, alla liberazione molto anticipata e al fermento portato da una presenza di truppe Alleate che non erano solo occasione di traffici loschi.
Fu lo stesso Eduardo De Filippo a spiegare: «Poche settimane dopo la liberazione mi affacciai al balcone della mia casa di Parco Grifeo, e detti uno sguardo al panorama di questa città martoriata: allora mi venne in mente in embrione la commedia e la scrissi tutta d’un fiato, come un lungo articolo sulla guerra e le sue deleterie conseguenze». Composta di getto in poche settimane, la commedia si apre peraltro anch’essa su un palcoscenico quasi completamente al buio, secondo uno stilema tipico di De Filippo. Nel 1942, in un tipico basso napoletano, casa del tranviere Gennaro Iovine, che non è riuscito a dormire: prima per via di un bombardamento notturno; poi per le grida di sua moglie Amalia, che per strada fa borsa nera di caffè e sta litigando con una borsanerista concorrente.
A Gennaro i traffici della moglie non piacciono. Però e grazie alla sua losca intraprendenza se sopravvive anche lui, oltre ai figli Maria Rosaria, Amedeo Rituccia. Non obietta dunque alla triste scena del ragionier Spasiano, che è venuto a comprare a caro prezzo qualcosa da mangiare per la famiglia, e che Amalia sta dissanguando. E si presta perfino a fare il cadavere, quando il brigadiere Ciappa arriva per arrestarlo proprio in seguito alle illegalità di sua moglie. Le cibarie di contrabbando sotto nascoste sotto il letto del falso defunto, le monache che pregano in latino maccheronico sotto la veste portano calzoni, ma il brigadiere non ci casca. Solo che quando ricomincia il bombardamento è tutti scappano solo il cadavere rimane imperterrito al suo posto. Ammirato per il coraggio, il brigadiere gli promette che non lo arresterà. E allora Gennaro risorge.
Nel 1943 Gennaro è però portato via dai tedeschi. Lungi dal disperarsi la moglie si è tuffata ancora di più nella sua vocazione di imprenditrice illegale. Con i soldi ha ristrutturato il basso e si è riempita di gioielli, con i gioielli la vediamo festeggiare il compleanno di Settebellizze: il camionista suo socio in loschi affari che le fa la corte, però respinto. Vera eroina di quel familismo amorale descritto da Edward C. Banfield come vera cifra degli italiani, Amalia malgrado tutto spera ancora nel ritorno del marito. Sul suo esempio Amedeo è diventato uno specialista in furti di pneumatici, mentre Maria Rosaria è incinta di un soldato americano già tornato a casa sua. A quel punto Gennaro piomba su di loro. Dopo tre mesi di prigionia, racconta, è riuscito a scappare, e ora è tornato a casa. Attenzione: come la frase che sembra positiva ma potrebbe avere un vero senso negativo, in realtà è un simbolo ambiguo anche questo dell’ex-prigioniero che trova la famiglia ormai sprofondata nella corruzione e di cui nessuno vuole ascoltare le peripezie, perché ognuno ha passato le sue e adesso bisogna festeggiare Settebellizze. Il reduce che constata l’inutilità della sua testimonianza? Anche, ma ricordiamo che nel marzo del 1945 in realtà milioni di italiani stavano ancora nei campi di concentramento. Mostrarne uno che è tornato ha anche un senso di augurio, che oggi non si coglie più.
Gennaro comunque, deluso, se ne va dalla piccola Rituccia, che è ammalata. «La guerra è finita», ripetono tutti. Per Gennaro la guerra vera la povera gente che ha perso ogni valore la deve ancora combattere. Quando Ciappa ricompare per avvertirlo che arresterà Amedeo se lo sorprenderà ancora a rubare gomme Gennaro lo esorta rassegnato a fare il suo dovere. E quando la malattia di Rituccia si aggrava, «tene a freva forte», e il medico dice che ci vuole penicillina per salvarla nessuno riesce più a trovala in tutta Napoli. Amalia è disperata: lei stessa ha imboscato sigarette per farne alzare il prezzo, e capisce che stanno facendo lo stesso con la medicina, anche se la bambina può morire. Proprio all’ultimo momento, è proprio il ragionier Spasiano che si presenta con la penicillina. La aveva in casa. Amalia lo ha ormai ridotto sul lastrico, ma non vuole niente. Solo la soddisfazione di farle notare che quando si era trattato di non far morire di fame i suoi figli lei non era stata altrettanto generosa. «Chi prima, chi dopo, ognuno deve bussare alla porta dell’altro».
La bambina si salverà se passerà la nottata, annuncia il medico dopo aver somministrato la medicina. Amedeo dice che non ruberà più e cercherà di lavorare onestamente, Maria Rosaria resterà in famiglia con il suo bambino, Amalia piange, Gennaro pronuncia la frase immortale. «Mo avimm’aspetta’, Ama… S’ha da aspetta’. Comme ha ditto o’ dottore? Addà passà ’a nuttata».
La commedia diventerà poi un film nel 1950: sempre diretto e interpretato da Eduardo De Filippo, ma con qualche scena cambiata. Una apposta per dare un ruolo a Totò. Soprattutto, l’assenza di Gennaro si è dilata da qualche mese a almeno un anno e mezzo, visto che è finito in «Russia, Germania e Polonia». Finirà nel 1951 a Cannes, e favorirà la rappresentazione della commedia in vari altri Paesi. Famosa l’edizione di Londra del 1972. Nel 1962 la commedia è rappresentata per la prima volta in tv, e nel 1977 diventa un dramma lirico con musica di Nino Rota. Tutte queste ripassate suggerivano che in qualche modo per Napoli in particolare e per l’Italia in generale la «nuttata» non è che fosse mai del tutto passata, malgrado democrazia e boom.
«Addà passà ‘a nuttata» nel suo senso più ottimista sta venendo ora ripetuto dagli italiani chiusi in casa per il Coronavirus. Soprattutto nei festosi flashmob canori e musicali che si stanno susseguendo su terrazzi e balconi. È vero che certe cronache che arrivano dal capoluogo campano sembrano quasi evocare i tempi di Napoli milionaria pure nella loro accezione più deleteria. Mascherine antivirus vendute a prezzi 20 volte più alti, dispositivi fasulli spacciati come utili, igienizzanti e detersivi oggetto di accaparramento o taroccati. Ma ci sono addirittura governi regionali che stanno bloccando il passaggio delle mascherine a altre regioni, portando all’interno del Paese il tipo di polemiche già divampate a livello pan-europeo. Appunto, senza ricordare che «chi prima, chi dopo, ognuno deve bussare alla porta dell’altro».
Però c’è pure un’altra frase che nella «nuttata» del Coronavirus andrebbe ricordata. Citiamo dal film del 1950, quando vediamo De Filippo-Iovine che torna a Napoli. Nel copione della commedia è descritto con precisione: «Il berretto è italiano, il pantalone è americano, la giacca è di quelle a vento dei soldati tedeschi ed è mimetizzata. Il tutto è unto e lacero. Egli appare molto dimagrito dal primo atto. Il suo aspetto stanco è vivificato soltanto dalla gioia che ha negli occhi di rivedere finalmente la sua famiglia, e la sua casa. Porta con sé un involto di stracci, messo a tracolla come un piccolo zaino e una scatola di latta di forma cilindrica, arrangiata con un filo di ferro alla sommità, che gli serve come scodella per il pranzo».
Nella pellicola lo vediamo avvicinarsi a un uomo con un berretto con visiera che sta seduto a mangiare davanti a una portone. Lo guarda, l’uomo stupito: «beh?». «Vi ricordate?». «No». «Quando c’erano i tedeschi, io passai con un cesto di mele. Vi ricordate? Voi diceste: non andate a destra. Andate a sinistra, sempre a sinistra. Scendete le scale. Io andai a sinistra». «Embè», interloquisce l’uomo, che intanto ha continuato a sbocconcellare il suo panino. «Torno adesso». Solo a questo punto l’uomo inizia a mostrare emozione. Avvicina il capo quasi a voler mostrare solidarietà con Gennaro: «Tornate adesso?», con un tono più partecipe. Gennaro gli prende un attimo il mento con una mano. «Ho fatto il giro un po’ più lungo. Russia, Germania, Polonia. Ho fatto il giro del mondo». Adesso l’uomo col berretto lo riconosce, come dimostra il gesto di mettersi la mano davanti alla bocca e il tono di esclamazione. «Ah! Sì! Mi ricordo!». Gennaro gli punta il dito in senso di amara ironia. «’E mele, sì, i tedesche! Ma uno tante volte dice così per dire, tanto per dare un consiglio. E io volevo farvi un piacere!». Gennaro: «Io se fossi chi dico io farei un bel disegno legge. È proibito dare consigli alla gente quando la gente non lo chiede».
Ed è questa una scena la cui visione oggi dovrebbe essere davvero prescritta, all’esercito di utenti dei social autori di post «fai girare» con consigli, rivelazioni e soprattutto bufale, la cui efficacia nell’evitare il contagio rischia di essere la stessa della «dritta» per evitare i tedeschi che fece invece deportare Gennaro in capo al mondo.