Una cosa manca ancora: l’autocritica. Merce rarissima nella politica politicante, nelle piazze reali e in quelle virtuali del web, fra gli intellettuali come pure nei tinelli odorosi di pranzo. Addirittura sinonimo di pena da espiare, nella pratica totalitaria novecentesca, oppure lasciapassare per i voltagabbana di ogni tempo, l’autocritica è invece la quintessenza dell’onestà intellettuale oltre che l’antidoto a future otttusità. E la dovremmo fare tutti noi italiani, chi più chi meno. A partire, certo, da chi ha seminato nel Paese l’idea nefasta e insieme grottesca che si fosse davanti a una specie di influenza; e da chi avendo ruoli politici e di governo all’inizio si dimenticò di alimentare la necessaria consapevolezza della serietà del problema.
Per questo va salutato con un senso di gratitudine l’intervento di Gianrico Carofiglio su Repubblica. «In molti, io per primo, abbiamo detto cose sbagliate, a volte stupide, dall’inizio della crisi», afferma lo scrittore. Spiegando che «le affermazioni sbagliate o anche stupide dipendono da molte ragioni. Nel caso specifico, fra l’altro, dalla difficoltà, per i non addetti ai lavori, a comprendere e maneggiare concetti non intuitivi come quello di crescita esponenziale». Ma la questione – prosegue – è più vasta e «riguarda il nostro bisogno quasi compulsivo di esprimerci su tutto; anche prima di avere gli elementi per farlo senza rischiare di dire o scrivere sciocchezze. Se guardo indietro, nel passato remoto, o in quello recente quando questa vicenda era già cominciata, i miei comportamenti più stupidi sono consistiti nell’esprimere un’opinione quando avrei fatto bene a non parlare o a non scrivere». Bravo Carofiglio.
Ecco il punto. Storicamente, un tratto italiano fra i più odiosi è esattamente quello per il quale tutti parlano di tutto, come aveva ben detto Nanni Moretti con l’immortale «parlo di epigrafia greca io?», vizio antico decuplicato all’ennesima potenza dai social e assolutamente trasversale politicamente e socialmente. Tutti siamo speleologi dopo un terremoto o banchieri se sale lo spread: è il solito adagio dei 60 milioni di commissari tecnici quando gioca la Nazionale che regna imperterrito sul Belpaese.
A un certo punto – ne scrivemmo anche su Linkiesta – era partito il discorso sulla fine dell’emergenza, dal 5 al 21 febbraio il governo, che pure aveva dichiarato lo stato d’emergenza, se ne stette abbastanza con le mani in mano mentre la discussione politica girava sulla prescrizione e sui “responsabili” e nelle cene ci si lamentava per una presunta overdose di notizie sul coronavirus e i soliti fighetti di Twitter reclamavano aperitivi e salatini. Qualche giorno dopo era già una tragedia. L’orchestrina sul Titanic. Intanto fioccavano alati appelli a non chiudere le città, ad andare al cinema, alle mostre, allo stadio: fu il momento sciagurato dell’aperitivo a Milano e simili follie (viste oggi).
E poiché un altro dramma del carattere italiano è quello di affidarci tutti a una non meglio definita sensazione, si decise che insomma il peggio era passato e che sì d’accordo moriva qualche vecchietto ma la vita riprendeva più o meno come prima, una sensazione che era un esorcismo ma anche l’effetto del gismondismo della dottoressa del Sacco che si diffuse a una velocità superiore del virus e s’incistò sul carattere superficiale di tanti italiani.
Ora che siamo nel mare forza 10 sul nostro naviglio battente il tricolore, diversi giornalisti (nessuna illusione riguardo a Travaglio o Scanzi) e filosofi e politologi e presentatori televisivi hanno di che fare autocritica, anche con un spritz in mano, e se tutti noi un’altra volta ci asterremo dal pontificare allora questa tragedia ci avrà lasciato, oltre al lutto, una grande lezione.