Non è tanto che la vita imiti l’arte: è che l’arte fornisce istruzioni alla vita. Nella vita di questi giorni, quella che gira intorno al virus, la regola principale è quella codificata dallo sceneggiatore William Goldman, autore tra l’altro di quel film minore intitolato Tutti gli uomini del Presidente. Nella storia del Watergate, lo scandalo che costò a Nixon la presidenza, Goldman faceva scandire a Gola Profonda la regola che non sbaglia mai: «Follow the money», va’ dove ti portano i soldi.
I soldi, all’inizio di questo kolossal, avevano portato ai vari «Milano non si ferma» e altre istanze che si preoccupavano di far sopravvivere all’epidemia anche coloro che non vivono di rendita. Se fossero folli ce lo diranno i prossimi tempi (intesi come anni), per ora sono state sconfitte dalla tendenza contraria: persino i più ostinati tra i biondi, Donald Trump e Boris Johnson, hanno deciso che stare in casa evitando di contagiare gli altri è più importante che non far collassare l’economia.
Poco dopo, l’attenzione si è concentrata sull’economia della beneficenza. Tutto è cominciato, segno dei tempi se mai ce n’è stato uno, da Chiara Ferragni. Lei e il marito hanno avviato una raccolta fondi che in un giorno è arrivata a tre milioni di euro. Per emulazione, nelle settimane successive qualunque italiano famoso in ogni settore, da Pif a Miuccia Prada, ha donato macchine per la rianimazione o si è messo a organizzare raccolte fondi. Che sia un circolo virtuoso o pericoloso (finiremo come quel paese tra l’Atlantico e il Pacifico che conta sulle mance e sulla beneficenza, per fornire ai cittadini i servizi che dovrebbe fornir loro lo Stato?) non è importante per i polemisti da social. I quali hanno avuto da obiettare: che la donazione fosse a un ospedale privato, che la cifra iniziale messa dai coniugi Ferragni non fosse proporzionata ai loro emolumenti abituali, che lo facessero per farsi pubblicità (va’ dove ti portano le intenzioni), e infine, con anticipazione del tema che sarebbe poi diventato decisivo, che non paghino le tasse.
Era il 12 marzo quando la futura candidata a sindaco di Bologna per il PD pubblicava questo tweet: «Alle multinazionali e ai miliardari famosi e non che, con generosità mediatica, stanno donando soldi alla sanità pubblica, un pensiero: se pagaste le tasse dovute, non staremmo qui a fare raccolte fondi per garantire posti letto in ospedale». A quel punto le donazioni note erano dei Ferragni e di Giorgio Armani: in attesa di sapere se è stata depositata qualche denuncia per diffamazione, è interessante ravvisare nel tweet un tic che era già esasperante diciannove anni fa.
Nel maggio 2001 il presidente degli Stati Uniti il giovedì sera era un premio Nobel per l’economia, si chiamava Josiah Bartlet. A scrivergli i discorsi era l’ex avvocato d’uno studio legale per ricchi, il Gage Whitney. In una puntata di The West Wing, l’ex avvocato parlava con un esponente di sinistra che aveva lo stesso tic che diciannove anni dopo avrebbe riguardato l’Italia del virus. «Ogni volta che il tuo capo dice “è tempo che i ricchi paghino la loro parte”, io mi nascondo sotto il divano e cambio nome. Quando me ne sono andato da Gage Whitney guadagnavo quattrocentomila dollari l’anno. Significa pagare ventisette volte più tasse di quante ne paghi in media un americano: ho pagato la mia parte, e quella di altre ventisei persone. E sono stato felice di farlo, perché altrimenti il sistema non funziona, ed è nel mio interesse che tutti possano andare a scuola o viaggiare su strade asfaltate. Ma il giorno delle elezioni non mi è concesso di votare ventisette volte, i pompieri non arrivano ventisette volte più veloci se mi va a fuoco casa, e l’acqua dal mio lavandino non esce ventisette volte più calda. L’uno per cento più ricco di questo paese paga per il ventidue per cento del paese: dico solo, cerchiamo di non prenderlo anche a male parole mentre lo fa».
E arriviamo all’ultima settimana. Comincia, sabato, Lorenzo Jovanotti su Instagram. In una delle sue dirette pomeridiane butta lì, come raccordo tra un amico ospite e l’altro, che ci stiamo accorgendo in questi giorni in cui la sanità annaspa di quanto sia grave non pagare le tasse. Non dice «ve lo dico io che sono l’uno per cento e le tasse le pago per il ventidue per cento», ma il ragionamento è chiaramente complementare a quello di West Wing, ed è un ragionamento che nei giorni successivi unisce i due estremi televisivi italiani.
Domenica Fabio Fazio dice la stessa cosa a Che tempo che fa. La ribadirà lunedì in un articolo su Repubblica; sempre lunedì, su Instagram compare un post sul sistema sanitario nazionale che si conclude così: «Questo può essere possibile solo pagando le tasse: io oggi sto pagando per la salute anche di chi è stato furbo». Il post è di Raffaella Mennoia, un nome che al grande pubblico non dice granché: è la mente che c’è dietro a cosette di nicchia come Uomini e donne e Temptation Island, ed è il segno che questo dire che l’evasione fiscale fa schifo è il vero terreno comune. Che non esiste la tv culturalmente presentabile e quella kitsch; non esistono i poveri comunque onesti e i ricchi comunque evasori; che forse non esistono più neanche la destra e la sinistra; ma di sicuro esiste la grande chiesa di quelli che un sacco di soldi li guadagnano ufficialmente, e quindi ci pagano un sacco di tasse, e si sono scocciati di essere presi a male parole mentre lo fanno. (Ufficialmente è la parola chiave: negli anni 80, quando l’etica fiscale non era ancora un requisito nel mondo dello spettacolo e della grande chiesa non era stata posta la prima pietra, un noto comico che in vecchiaia si sarebbe scoperto una vocazione da moralizzatore era solito congedarsi dagli amici per andare a fare quella cospicua parte del suo lavoro che consisteva nel partecipare a serate pagate in nero con la spiritosissima frase «Vado a fare una rapina»).
Se c’è una grande chiesa, e di lavoro fai il leader spirituale, non ti resta che accaparrartene la guida. Bergoglio, essendo bravino nella comunicazione, ha capito subito cosa dire per entrare nello spirito del momento: ha ragione Fabio Fazio. L’ha detto (mercoledì a Repubblica) pur sapendo (sennò non sarebbe bravino nella comunicazione) che i social si sarebbero riempiti di «invece di Fazio, che lodi qualche volontario che non guadagna miliardi» (perché i polemisti dell’internet, come il futuro sindaco di Bologna e come certi cartoni animati, pensano i ricchi siano ontologicamente cattivi), e soprattutto di «e allora lui perché non paga l’Imu». Obiezione che sarebbe interessante analizzare, nella sua similitudine con quelle «multinazionali» evocate dal futuro sindaco: se uno Stato ti concede delle agevolazioni fiscali e tu ne usufruisci, perché il cattivo sei tu? Cosa dovresti fare, lasciare allo Stato dei contanti sul cuscino per mostrarti generoso e non approfittatore?
C’è un tic interessante nei gruppi Facebook dedicati al reddito di cittadinanza. Arriva qualche non percettore a dare dei parassiti ai percettori, e c’è sempre chi gli risponde «ma a te che fastidio dà? Mica sono soldi tuoi». Chissà da dove pensano vengano, i soldi dello Stato, i cittadini di questo Stato. Probabilmente pensano ci sia un signore chiamato Stato con un deposito di dobloni in cui nuotare. Allo stesso modo, su Twitter l’altroieri era un pieno di «se non ci sono posti in rianimazione non è per l’evasione fiscale, è per i tagli alla sanità». Chissà da dove pensano vengano presi i soldi da dare o da tagliare alla sanità, i polemisti dell’internet. Chissà quanto spesso vincono al gioco delle tre carte.
Bergoglio, lui vince sempre. Nell’uno-due tra la foto a piedi e la dolente approvazione della condanna agli evasori fiscali, sembrava il Papa immaginario dell’ultima serie di Sorrentino, quello tra Jude Law e John Malkovich, quello che vuole un Vaticano povero, e apre le porte ai senzatetto. «È stata una mossa brillante da parte mia», gongola il tapino ignaro (lo ammazzano poco dopo, figuriamoci).
Il rischio, in quest’epoca in cui la percezione non è solo l’unica cosa che conta, ma non è più neanche lontana parente del reale, è che la condanna dell’evasione fiscale finisca per sembrare un affare di privilegiati. Che venga spacciato per lusso (per radical chic, come dicono quelli che usano le parole a caso) il potersele permettere, le tasse. Certo che le paghi, sei un privilegiato, non come noi che pratichiamo l’evasione di sopravvivenza. Che la condanna dell’evasione fiscale finisca per sembrare come quella del rapimento Moro, quando Arbasino scrisse: «Sarà indubbiamente cattolico evocare i mostri e l’abisso quando rapiscono un importante statista cattolico, ma (probabilmente) sarebbe ancora più cattolico evocarli quando si rapisce o ammazza anche il ragionier Rossi. Altrimenti diventa una cosa – come dire – un po’ proustiana: grandi angosce se capita un accidente alla Duchesse de Guermantes, ma ambasce molto minori se le muore qualche cameriera».
D’altra parte, al Bergoglio di finzione immaginato da Sorrentino, quello certo della bontà della sua trovata giacché «il popolo e la stampa sono tutti dalla mia parte. La stampa di sinistra, in particolare», il più realista dei cardinali rispondeva: «Ed è esattamente per questo che la invito a essere prudente, santo padre: la stampa di sinistra non ne ha mai azzeccata una, ed è per questo che ha perso appeal persino nelle case di riposo».