L’apocalisse al giorno d’oggiIeri la peste, oggi il coronavirus. Guardate “Il settimo sigillo” per esorcizzare la paura e amare il cinema

Max von Sydow morto l’8 marzo interpreta il crociato che gioca a scacchi con la morte in una Svezia colpita dalla peste. Il film rappresenta la sua ricerca inquieta di senso. Troverà la sua “azione significativa”, la stessa che oggi, in tempi di quarantene ed emergenze, possiamo fare tutti

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In un nord travolto dal morbo, un cavaliere torna dalle Crociate, disilluso e in cerca di certezze. Nel suo vagabondare incontra la Morte in persona. Non lo porterà via subito: il cavaliere decide di sfidarla a scacchi per guadagnare il tempo di compiere «un’azione significativa». Lei (anzi, lui: nel film è interpretata da un uomo, perché in svedese “morte” è una parola maschile) accetta. È il celebre motivo de “Il settimo sigillo”, film del 1957 di Ingmar Bergman, in cui il cavaliere, interpretato dall’attore franco-svedese Max von Sydow, morto l’8 marzo di quest’anno, gioca a scacchi con la morte.

Se l’immagine non è originale (Bergman la riprende da un affresco del XIV dipinto da Albertus Pictor, artista svedese del XIV secolo, ancora visibile nella chiesa di Taby Kirka, a Stoccolma) la sua rielaborazione allegorica sì. Tutto il film è, come ha detto lo stesso regista, «un’allegoria con un tema molto semplice: l’uomo e la sua ricerca di Dio, con la morte come una certezza». Nel suo vagabondare il cavaliere, insieme al suo scudiero, raddrizzerà torti, salverà una famiglia di saltimbanchi abbandonati dall’agente, farà giustizia delle parole vuote di un predicatore, lo stesso che lo aveva convinto a partire per le Crociate. Ma è con la Morte, in persona con i segreti che (non) custodisce che intrattiene le conversazioni più profonde. Sullo sfondo c’è un medioevo così accennato da diventare metafisico, e non per caso. La peste ha dissolto certezze conservate da secoli, ha ribaltato convinzioni e convenzioni, lasciando spazio a ciarlatani e abbattendo autorità antiche. Cosa rimane, cui valga la pena credere?

I dubbi del cavaliere, in un’Europa del dopoguerra, sono espressi per essere eterni. Con “Il settimo sigillo” si inaugura un filone cosiddetto religioso: i toni e modi sono elevati, le riflessioni universali, i gesti simbolici. Serve per interrogarsi. Oggi non esiste (ancora) un’opera d’arte che racchiuda, con il linguaggio che più è appropriato, le preoccupazioni per l’epidemia da coronavirus. Nella vita reale non c’è solennità, e ci mancherebbe. Lo hanno già detto fino allo sfinimento: nel nuovo millennio non c’è più spazio (se non a livello personale) per categorie come “fede”, “peccato”, o “Apocalisse”. E – ovvio – la “morte” non si manifesta in persona, ma come un numero.

Eppure anche qui il disorientamento c’è. Le opinioni, anche di persone autorevoli nel campo medico, si formano e si sbriciolano nel giro di poche ore. Le decisioni, anche di persone autorevoli nel campo politico, si prendono e si disfano in una notte. Quelli che prima erano bollati come predicatori di sventura, sono diventati saggi. E gli inviti alla calma hanno generato negazioni, frenesie edonistiche o peggio ancora, pulsioni egoiste. Per non parlare delle rivolte in carcere, dovute a dimenticanze colpevoli.

Oggi a vedere “Il settimo sigillo” non c’è più lo stesso pubblico. Disabituati (per fortuna) alle disgrazie collettive, non le si riconosce quando si manifestano nella loro banalità, invischiate di incertezze, dubbi e battute di spirito. Eppure ci siamo. Quasi per pudore, i disastri vengono interpretati solo attraverso il punto di vista economico. Per le emergenze sanitarie si usa la statistica. Latitano i simboli, insomma, e la retorica che funziona è solo quella ottimista (e lodevole, per carità) di chi ripete e si ripete che «andrà tutto bene». Oggi definire Giuseppe Conte un «condottiero» farebbe ridere, ed è di cattivo gusto. La ricerca di senso del cavaliere, con le stesse parole e le stesse domande, in un bar aperto fino alle 18, apparirebbe lunare. Eppure non siamo tanto lontani. Non c’è una morte impersonificata che gira per il Nord Italia, certo. Ma oggi, qui, anche solo stando a casa, tutti siamo tornati a giocare a scacchi contro di lei. Il cavaliere cercava una «azione significativa» per dare senso alla propria esistenza? La trova proprio distraendo la Morte con gli scacchi, impedendole così di prendere la famiglia di saltimbanchi.

Ecco, oggi tutti sono chiamati allo stesso gesto: quell’azione significativa si chiama senso di responsabilità. Stare a casa, attenersi alle prescrizioni, evitare gli apertitvi. Sorprende forse che sia così semplice allungare la vita agli altri e a se stessi. Ma la banalità può essere eroica. Intanto, a combattere in prima linea (ahi, metafora) ci sono ancora i medici e gli infermieri, con scacchiere più difficili, più grandi, più confuse delle nostre.