«Avremo fatto un buon lavoro se centreremo l’obiettivo dei centomila morti da Covid-19». La cruda frase di Trump, pronunciata durante la conferenza stampa di domenica pomeriggio, scolpisce senza pietà la grave emergenza che attraversa gli Stati Uniti. Le misure di restrizione della popolazione sono prolungate almeno fino al 30 aprile. Ma la data più realistica per riprendere fiato è fissata ancora più in là: «entro il 1° giugno ne usciremo», ha detto Trump. Ma ormai è difficile credere alle sue parole. Nel momento in cui scriviamo, gli Usa contano 2500 decessi e sono diventati il primo paese al mondo per numero assoluto di contagi: 140mila, che però vanno rapportati a una popolazione molto più ampia di quella italiana.
Gli americani, quindi, resteranno a casa ancora per un bel po’ nonostante, qualche giorno fa, in preda ad uno dei suoi famigerati raptus, Trump avesse annunciato l’intenzione di riaprire il paese entro Pasqua. Un conduttore della Fox News aveva definito entusiasticamente il suo piano «una grande resurrezione americana». L’annuncio si è risolto, proprio domenica, in una delle proverbiali giravolte del Presidente. Anthony Fauci, il superesperto di malattie infettive che svolge il ruolo di consulente per la Casa Bianca su Covid-19, ha avvertito che il picco dei contagi e dei decessi negli Stati Uniti potrebbe arrivare il 1° maggio, ben tre settimane dopo Pasqua, e che l’America rischia di avere 200mila vittime. E così Trump ha fatto dietrofront. Fino a maggio l’America non riaprirà affatto. Altro che “resurrezione”.
La grande scoperta di questi giorni è però che una “resurrezione” imprevedibile c’è. Ed è proprio quella di Trump. Secondo un sondaggio Gallup, il 49% degli americani approva il lavoro che Trump sta facendo come presidente: è il livello più alto di consenso mai raggiunto dal presidente nei sondaggi dell’istituto. Un’altra indagine, diffusa all’inizio della scorsa settimana dalla Monmouth University, vede salire l’apprezzamento per Trump al 46%, il risultato migliore raggiunto negli ultimi tre anni. Il motivo di questo capovolgimento dei numeri del consenso – fino a poche settimane fa traballante – dipende dall’apprezzamento generale per la sua risposta all’epidemia da coronavirus. Secondo Gallup, 6 americani su 10 approvano le scelte del Presidente nella gestione della crisi. L’ampio consenso non riguarda solo gli elettori repubblicani ma anche gli indipendenti (60%) e perfino i democratici (27%). Eppure nei mesi scorsi Donald Trump aveva completamente sottovalutato la minaccia. Ha denigrato gli allarmisti. Ha sbeffeggiato gli avversari democratici, accusandoli di mettere in circolazione fake news. Ha comunicato informazioni scorrette – o addirittura false – sul piano scientifico. Ha giocato il solito ruolo di vittima sacrificale della stampa faziosa. Ha lasciato i servizi sanitari nel caos a causa della carenza di kit per la somministrazione dei test.
Come si spiega dunque questo successo? «Tutto ciò non deve sorprendere», spiega Chris Cillizza della Cnn. «La storia ci dice che il consenso intorno al presidente cresce quando il paese affronta delle gravi crisi. Era capitato anche a George W. Bush, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Nei momenti di radicale pericolo anche gli oppositori ammorbidiscono la loro percezione negativa. Prevale la necessità che i nostri leader ci conducano fuori dalla crisi». Ecco perché oggi la maggioranza delle persone comuni si affida a Trump. Nonostante le sue affermazioni siano false o siano considerate pericolose dagli esperti di salute pubblica.
In virtù di questo largo consenso, Trump sembra lanciatissimo. Nei giorni scorsi, contraddicendo senza remore il Trump che aveva promesso la riapertura del paese, ha lanciato l’idea di una quarantena stretta per i tre Stati più martoriati della costa est: New York, New Jersey e Connecticut. In questo momento, infatti, New York è l’epicentro dell’epidemia in America. Gli ospedali della metropoli sono sopraffatti dalla carenza di equipaggiamento e ventilatori, necessari per fronteggiare Covid-19. Il Governatore di New York Andrew Cuomo ha parlato con Trump sabato mattina, ma la quarantena non era in questione. «Non so nemmeno cosa significhi. Non so se sia applicabile sul piano giuridico», ha detto il governatore democratico durante una conferenza stampa ad Albany, dubitando anche dei suoi effetti sul piano sanitario. «Posso dirvelo: non mi piace nemmeno il suono», ha aggiunto. Per Cuomo, la quarantena di New York rappresenterebbe il caos. Di fronte a questa resistenza – la competenza sulla misura appartiene al governatore – Donald Trump ha, per adesso, rinunciato all’idea, confermando però il blocco aereo della zona suggerito anche dal Cdc, il Centro federale per il controllo e la prevenzione delle malattie. Molti ricchi di Manhattan sono già fuggiti verso le loro ville in Florida scatenando le reazioni stizzite del governatore dello Stato del sud, Ron DeSantis, preoccupato per l’arrivo degli “untori”.
Trump, inoltre, ha assunto una serie di decisioni “scenografiche” che certamente contribuiranno ad accrescerne il consenso. Ha inviato una nave ospedale davanti alle coste di Manhattan. Ha aperto una call per richiamare in servizio i pensionati dell’esercito (in totale sarebbero 800 mila): alcuni di loro (più di 200mila) fanno parte della Individual Ready Reserve e, secondo il Dipartimento della Difesa, circa 11mila vantano professionalità sanitarie. Ha intimato con un tweet alla General Motors di convertire la propria produzione per realizzare i ventilatori che mancano negli ospedali statunitensi. Soprattutto – complice il virus – è riuscito nel miracolo di mettere d’accordo repubblicani e democratici per approvare alla Camera e al Senato il piano di stimolo dell’economia pari a 2mila miliardi di dollari. Una cifra mostruosa, la più alta nella storia, che servirà, tra le altre cose, per sostenere le domande di disoccupazione arrivate da più di tre milioni di americani che hanno perso il posto di lavoro a causa delle chiusure necessarie per rallentare l’epidemia.
L’aumento della popolarità di Trump nel contesto di una emergenza di proporzioni enormi potrebbe segnare in modo drammatico e permanente il futuro della politica americana e, di conseguenza, delle relazioni internazionali. Sul piano interno, sembrano a rischio la sicurezza e l’integrità delle prossime elezioni presidenziali.
L’amministrazione Trump deve ormai rassegnarsi a una pandemia che potrebbe presentarsi a ondate differenti e successive fino al prossimo anno. Un evento che potrebbe travolgere il corretto funzionamento delle elezioni presidenziali. D’altra parte, diversi appuntamenti elettorali sono stati sospesi in molti stati europei. Nella migliore delle ipotesi, l’epidemia potrebbe assestarsi durante l’estate permettendo lo svolgimento di elezioni relativamente normali a novembre. Molti osservatori però si preparano a vivere scenari apocalittici che prevedono il rinvio delle elezioni al prossimo anno, l’aumento di controversie legali tra i contendenti e la crisi del sistema costituzionale.
Nel frattempo, i candidati dem sono finiti in un cono d’ombra. Da quando è esplosa la crisi, nessuno parla più delle primarie democratiche. La visibilità di Joe Biden – che stava cavalcando l’onda del successo – è ridotta ai minimi termini. Bernie Sanders spera di ricavare qualche vantaggio dalla catastrofe sanitaria che si annuncia per rilanciare il suo programma di sanità pubblica. Alcuni cominciano a sognare un incredibile colpo di scena con l’ingresso in campo del governatore di New York Andrew Cuomo, protagonista assoluto della lotta titanica contro Covid-19. In ogni caso, i prossimi mesi saranno dominati dal caos, soprattutto con riguardo alle operazioni di voto. Difficile immaginare lunghe file di elettori e squadre di anziani vulnerabili ai seggi in un’epoca di distanziamento sociale. Ci sarebbero rischi enormi anche per l’affluenza. L’alternativa potrebbe essere il voto postale come avviene in alcune tornate delle primarie. Attualmente, solo cinque Stati tengono tutte le loro elezioni interamente per posta: Washington, Colorado, Oregon, Utah e Hawaii, per un numero di elettori che, nel 2016, fu pari al 7% del voto popolare nazionale. Ma non è così semplice che diventi il metodo unico valido per tutti.
In generale, non esistono – ovviamente – procedure formalizzate per la gestione del voto nel corso di un’epidemia. Lo dimostra il caso dell’Ohio. Qui il governatore si è precipitato in tribunale per rimandare le primarie del 17 marzo. Il giudice si è pronunciato contro il rinvio, ma il governatore ha trovato una soluzione alternativa: l’alto funzionario sanitario dello Stato ha dichiarato che i seggi elettorali erano un pericolo pubblico e li ha chiusi tutti. Se la crisi continua, situazioni come questa potrebbero ripetersi nei prossimi mesi fino all’autunno. Si rischia perfino un rinvio delle elezioni in un quadro molto complesso, anche sul piano costituzionale. In America, il presidente non può rimandare le elezioni, neppure in caso di emergenza. Questo potere spetta al Congresso, che può approvare uno statuto modificando la data delle elezioni, ma non può annullarle del tutto. Inoltre la Costituzione non dice quando le elezioni si devono svolgere ma dispone il termine di “scadenza” del mandato presidenziale: 20 gennaio 2021. Per quella data il presidente dovrà comunque lasciare la carica, salvo rielezione. Ecco perché molti critici attendono con preoccupazione le sue prossime mosse. Proprio di recente, Trump ha affermato che «rinviare le elezioni non è una cosa molto positiva».
Si capisce bene come in questo clima “pandemico” – confusione delle procedure per l’elezione del presidente e crescita della popolarità del presidente in carica – i democratici temano il cortocircuito: un Trump vittorioso sull’onda del disordine politico-istituzionale.
Ma non finisce qui. L’elezione del presidente degli Stati Uniti è un evento che riguarda tutto il mondo: negli ultimi cento anni ha sempre ridefinito lo schieramento delle forze sullo scacchiere geopolitico. L’America rischia di arrivare a questo appuntamento stremata. Nei quattro anni di politica isolazionista di Trump gli Usa hanno di fatto abdicato al loro tradizionale ruolo di Paese guida nelle relazioni internazionali. In più, per la prima volta nella storia, subiscono una minaccia “interna”, sferrata da un nemico invisibile: non un esercito, ma un virus. I morti saranno decine di migliaia e il paese potrebbe trovare un nuovo motivo per ripiegarsi su se stesso. Il campo delle democrazie occidentali diventa così sempre più fragile: non solo perché il virus aggredisce pure i paesi europei, ma perché l’Unione europea non riesce a esprimere quella risposta politica unitaria che è ormai indispensabile per affrontare le sfide del secolo. Nel frattempo la Cina ha rovesciato a proprio vantaggio la crisi pandemica globale rilanciandosi come il paese di riferimento nella lotta al virus e negli aiuti internazionali ai paesi colpiti. Il 2020 potrebbe diventare l’anno in cui gli Usa cedono il passo alla Cina. Definitivamente. Ecco perché un secondo mandato di Trump potrebbe risultare letale per l’America e per tutto l’occidente.