Sono necessari ottimi studi, certo. Capacità di gestione e organizzativa. Magari delle buone relazioni. Tutti requisiti essenziali per il manager di alto livello, sia che raggiunga le posizioni di vertice seguendo un percorso tecnico, cioè con una carriera interna all’azienda o al settore specifico, sia che invece segua una strada più diversificata, «provenendo in generale dal mondo della consulenza strategica». Sono, come illustra Giovanni Valotti, presidente di A2A e professore alla Bocconi di economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche, le due vie principali per accedere a ruoli apicali.
Arrivare a gestire le grandi aziende a partecipazione pubblica, in questo senso, non appare molto diverso rispetto al percorso di chi arriva a guidare grandi aziende private. Anche la scelta finale, in generale, segue le medesime procedure: gli headhunter, incaricati dagli azionisti, vagliano curricula e scelgono i profili più interessanti. Questo vale anche quando la politica – se l’azionista è un ministero, per esempio – assume un certo peso. Senza esagerare, però. Sembrano – e sono – sempre più lontani i tempi in cui alla guida delle partecipate veniva scelto il “politico puro”: le aziende pubbliche negli ultimi decenni sono cresciute per estensione e ampiezza, spesso hanno una portata internazionale. Occorrono persone capaci e, soprattutto, con esperienza di management complesso.
È cambiata anche la mentalità. Dagli anni ’90 si è rafforzata la necessità di imprimere anche al pubblico la spinta all’efficienza e alla qualità, impostando obiettivi e decidendo risultati: una svolta le cui radici ideologiche affondano nella teoria del New Public Management (la quale, però, ha faticato molto a filtrare nel territorio amministrativo italiano dominato da una cultura legalista).
Nella Pubblica Amministrazione lo stesso movimento ha portato a una razionalizzazione delle funzioni (il decreto legislativo del febbraio 1993, a questo proposito, è considerato epocale) differenziando organi politici e organi amministrativi, fino alla separazione netta tra politica e gestione del 2001. Per le grandi società partecipate, dopo la soppressione per referendum del Ministero addetto, si è proseguito lungo la strada delle privatizzazione in nome di una maggiore efficienza e flessibilità di fronte ai cambiamenti.
Tutto questo ha conseguenze su tutta la catena della gestione. Sul management e, come è ovvio, anche sui profili. Sarebbe impensabile, insomma, che oggi Enel non venisse affidata a una personalità con un track record da manager di successo. Lo stesso si può dire per Eni. In questo senso, è significativo che al vertice del Cane a sei zampe, per proseguire con l’esempio, si siano susseguite due personalità che incarnano le due strade più battute: quella del consulente strategico (Paolo Scaroni) e quella del tecnico (Claudio Descalzi).
Il primo, dopo la laurea in economia alla Bocconi nel 1969, ha lavorato in Chevron e poi – e questo segna il cambio di passo – è volato a New York per frequentare il Master in Business Administration alla Columbia University. Questo passaggio, sottolinea Valotti, non a caso tra i fondatori della Business School della Bocconi, permette di entrare in possesso di una vera e propria valigia degli attrezzi del manager: un quadro di nozioni completo che regala la capacità di gestione di organizzazioni complesse. È, in sostanza, un acceleratore di carriera. Dopo l’MBA, Scaroni entra nell’ambito della consulenza strategica (altro tassello) con McKinsey, lavora come responsabile nel gruppo francese Saint-Gobain, del settore del vetro, passa a Techint, va a Londra per la Pilkington e poi arriva in Italia a Enel. Da lì, anche grazie alle indispensabili conoscenze politiche, approda alla guida di Eni nel 2005. Il vetro e il petrolio hanno poco in comune: ma il management segue logiche simili.
Al contrario, Claudio Descalzi, attuale Ceo della società, ha un percorso del tutto diverso: laurea in Fisica e subito ingresso in una delle società del gruppo Eni. Da lì, di responsabilità in responsabilità, una lunga scalata fino alla nomina, nel 2014. Il tecnico e lo stratega, insomma.
Ma la varietà di carriere si ritrova anche ai vertici di Leonardo, ex Finmeccanica: l’attuale amministratore delegato, Alessandro Profumo, ha una carriera importante tutta nel settore assicurativo-bancario: laurea in Bocconi nel 1987, lavora per McKinsey, e poi gli incarichi a Ras, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena. Prima di lui c’era Mauro Moretti, una vita passata nell’universo delle Ferrovie italiane fino all’arrivo ai vertici di Trenitalia. Visti i risultati giudicati soddisfacenti di risanamento economico dell’azienda, fel 2014 arriva all’allora Finmeccanica su nomina di Matteo Renzi, presidente del Consiglio dell’epoca. Per non parlare del curriculum dell’attuale presidente Gianni De Gennaro, che dopo la laurea in giurisprudenza alla Sapienza, nel 1973 entra nella polizia (come commissario): è qui che percorre la sua salita fino ai vertici, inanellando la guida della Divisione Italiana Antimafia, l’incarico di capo della polizia, quello di capo di gabinetto al ministero dell’Interno nel 2007 e poi, nel 2011, diventando commissario straordinario per la crisi dei rifiuti di Napoli. A Leonardo arriva nel 2017.
A differenza che in Italia, la Francia della Seconda Guerra Mondiale ha scelto di dotarsi di una classe dirigente attraverso un meccanismo centralista ed elitista: la nascita dell’École National d’Administration, nel 1945, rispondeva al bisogno di personalità qualificate e selezionate per merito e non per clientelismo, per i punti più importanti della macchina statale. Da lì sono scaturiti presidenti della Repubblica, ministri e dirigenti aziendali (spesso la seconda carriera, in particolare nel privato). Un corpo che, negli anni, ha cominciato a somigliare sempre di più a una corporazione che, almeno nell’opinione pubblica, è andata a erodere la concezione meritocratica: la maggior parte dei nuovi entrati sono parenti dei vecchi mandarini. Va letto in quest’ottica l’attacco recente del presidente della Repubblica Emmanuel Macron (lui stesso un enarca) all’ENA, chiedendone l’abolizione: una mossa che mira a ripristinare i principi di merito e di capacità.
In Italia, vista anche al disomogenità storica degli impianti amministrativi, non esistono scuole del genere. Per i dirigenti della Pubblica amministrazione è previsto un corso-concorso: selezione dura (anche solo per i numeri di chi fa domanda), titoli richiesti molto alti (i dipendenti della PA devono avere la laurea, i non dipendenti un Phd o un Master) e 12 mesi di formazione. A questa si aggiunge, ma solo per incarichi a tempo determinato, la possibilità di accedere a incarichi dirigenziali attraverso un processo simile al privato: avviso pubblico, selezione, ricerca con headhunter, basata sui requisiti indicati. Anche qui, due carriere.
Infine, per chi è già dentro al mondo del pubblico, si sono create iniziative di selezione e accelerazione di carriera interne. Per fornire una nuova classe dirigente, sono nate scuole specifiche che seguono l’impianto delle Business School. Un esempio? La CDP Academy. Un MBA aperto ai soli dipendenti di Cassa Depositi e Prestiti e delle partecipate Ansaldo Energia, Fincantieri, Italgas, Open Fiber, Poste, SIA, Snam e Terna, con l’obiettivo, specificano,«di promuovere la crescita di manager al servizio del Paese, facendo leva sulle competenze e sul network di primarie realtà industriali».
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