La mancanza di unità attorno al 25 aprile è una conseguenza della natura stessa della guerra di Liberazione, che fu anche una guerra civile (“piccola” dal punto di vista bellico, ma profondissima nel suo significato morale) e dell’emersione trasformistica di un’Italia diventata quasti tutta antifascista quando il fascismo fu sconfitto quanto pressoché completamente si era votata a esso, con analogo plebiscito morale, al tempo del suo trionfo.
Il 25 aprile divenne una liturgia religiosa anziché una celebrazione civile, proprio perché la memoria della Resistenza, in cui si riconobbe un Paese tutt’altro che resistenziale fino alla tragedia bellica nel suo rapporto con il regime, era il modo migliore per rimuovere e obliare la stagione del “fascismo del consenso” e per redimere l’Italia dalle colpe storiche maturate nel Ventennio.
Si è spesso sottolineato come la difficoltà di fare del 25 aprile la festa nazionale della libertà, e non solo della Liberazione, dipendesse dalla fede politica staliniana delle organizzazioni comuniste, che contribuirono in modo determinante alla Resistenza e ne egemonizzarono le celebrazioni nell’immediato dopoguerra.
Ma più che la doppia osservanza democratica e sovietica del Pci togliattiano e post-togliattiano e oltre all’emersione di un fascismo post-fascista nostalgico e risentito, a rendere difficile la pacificazione nazionale attorno al 25 aprile fu in realtà il rifiuto di farne un momento di vera autocoscienza nazionale e di elaborazione della “questione della colpa” italiana. Ecco un’altra differenza tra Italia e Germania, di cui paghiamo ancora le conseguenze.
Oggi il 25 aprile cosa significa? A quale ruolo “pubblico” assolve? Insomma a cosa serve politicamente? Se servisse solo a rinnovare divisioni che risalgono alla stagione tutt’altro che parentetica del Ventennio fascista o a quella degli accordi di Yalta, finirebbe per aggiungere equivoci a equivoci e per giustificare paradossalmente l’obiezione, diciamo così, “neo-post-fascista” per cui non ha senso celebrare l’antifascismo perché il fascismo non c’è più e a minacciare la sovranità e la libertà degli italiani sono oggi altri nemici, individuati proprio tra i più tradizionali alleati del secondo dopoguerra.
Anche il 25 aprile, per avere un senso non anacronistico e positivamente “divisivo”, deve ancorarsi non al passato, ma a un presente in cui quel che resta della politica democratica (già, quanta ne resta?) continua a eludere la vera sfida politica culturale portata da un nazionalismo trasversale, che ha appestato le democrazie di tutto l’Occidente e che in Italia ha raggiunto livelli di contagio che rendono azzardata una prognosi benigna sul decorso della malattia.
Più che il passato problematico e rimosso di quel monumentale nazionalismo “da esportazione” che fu il Fascismo, al centro del 25 aprile e dell’impegno antifascista dovrebbero esserci i disegni, spesso coordinati e sempre convergenti di una “internazionale nazionalista”, che ha pure scomposto i blocchi della stagione pre-1989, e sta orchestrando il più temibile attacco alla cultura politica liberale e democratica dell’Occidente che si potesse immaginare.
Tanto più pericolosa perché non la violenta, ma la perverte, non la soggioga, ma la conquista al punto da rovesciarla nel suo contrario e da realizzare quella frattura tra suffragio popolare e garanzie personali, tra favore popolare e diritti individuali che è il sogno “democratico” segreto di tutti i nemici della libertà.
Visto che tutti in politica si riconoscono, prima che dagli amici, dai nemici, a fotografare l’anima di questa coalizione nazionalista è proprio il suo bersaglio obbligato, l’Unione europea, che è storicamente la costruzione più miracolosa e malgrado tutto più resistente dell’antifascismo politico italiano, francese e tedesco, la vera eredità di una stagione di azione e di pensiero concreta e visionaria.
La difesa dell’Europa, nella sua realtà, nelle sue regole, nella sua naturale solidarietà tanto disprezzata, quanto sfruttata dai nazionalisti è oggi il vero antifascismo, la vera Resistenza, il vero ideale di libertà, di uguaglianza e di responsabilità politica.
E l’europeismo è anche il modo più onesto per guardare a quel grumo rimosso della storia nazionale, che è la ricorrente seduzione per i modelli di dominio degli “uomini forti” e il disprezzo per sistemi di governo fondati sul governo della legge e su regole generali e impersonali.
La capitale dell’antifascismo oggi è tra Francoforte e Bruxelles, la sua Bibbia sono i trattati dell’Ue, la sua “Costituzione” sono le regole del mercato comune e della società aperta.