La designazione di Carlo Bonomi alla presidenza di Confindustria è una buona notizia per l’industria e per il paese, entrambi piegati dal virus e dalle politiche industriali dei cinquestelle. Ai tempi del primo governo Conte, quello che ha ferito il sistema produttivo italiano con il decreto dignità, il reddito di cittadinanza, la quota cento e lo spread, l’allora presidente di Assolombarda si è costruito il ruolo di serio oppositore sia della decrescita felice dei grillini sia delle smanie irresponsabili e antieuropee dei leghisti, mentre la leadership nazionale di Confindustria sbandava e decretava la resa incondizionata ai nuovi potenti.
Lo schema di Bonomi è saltato quando Matteo Salvini si è fatto ingolosire dal potere e, per mano di Matteo Renzi, l’estate scorsa è stato costretto a passare all’opposizione anziché all’incasso. Da quel momento, con uno schema di gioco diverso, Bonomi si è dovuto adattare al cambio inaspettato di maggioranza, ma non ha risparmiato critiche nemmeno alla prima legge di Bilancio del Conte due.
Anche la grande campagna di rottamazione della più ininfluente Confindustria degli ultimi decenni si è ammorbidita, forse per ragioni di campagna elettorale che evidentemente hanno premiato, visto che ieri il presidente di Assolombarda ha preso il doppio dei voti della sua sfidante, la torinese Licia Mattioli.
Dentro Confindustria, a Bonomi veniva contestata una cosa che a chiunque non fosse impelagato nella lotta interna di potere sembrava semmai un bonus di credibilità da spendere per rilanciare il paese, cioè presiedere Assolombarda e rappresentare Milano, la parte più produttiva del paese e la protagonista di un rilancio economico e culturale internazionale senza precedenti.
A Roma, e non solo a Roma, guardavano invece con sospetto questa possibile mutazione genetica di Confindustria, il modello Milano a Viale dell’Astronomia, con tutto quello che avrebbe potuto provocare in termini di mutazione di rapporti politici e di posizioni consolidate.
Le manovre di disturbo della candidatura rottamatrice di Bonomi sono state molteplici, ma sono rientrate a una a una perché, tranne quella di Mattioli, nessuna aveva la reale consistenza di un progetto alternativo a quello milanese.
Il virus però ha cambiato tutto. Il paradosso oggi è che il nuovo presidente di Confindustria è l’alfiere di un modello Milano che non esiste più, anche se si spera che l’assenza sia soltanto temporanea. Milano non è più The Place to Be celebrato dai grandi giornali internazionali né la meta esplorativa di businessman e di turisti provenienti da tutto il mondo. Milano è l’epicentro della pandemia, è la zona rossa dentro la zona rossa, è una città umiliata dal virus e da una gestione sanitaria del governo regionale inaccettabile.
Bonomi avrà bisogno di trovare una nuova narrazione, di elaborare un nuovo modello Italia, di passare dalla retorica della rottamazione a quella della ricostruzione. Sarà complicato uscire dalla più catastrofica crisi economica dal dopoguerra, specie con questa classe dirigente al governo.
Ricette non ce ne sono, i soldi scarseggiano e il sovranismo demagogico di Salvini e Giorgia Meloni continua a fare presa. I russi e soprattutto i cinesi hanno più di un piede dentro il paese, mentre i privati tedeschi e francesi si fregano le mani davanti all’opportunità di mettere le mani sulle aziende italiane in difficoltà. La sfida è insidiosa, le prospettive sono grame, le difficoltà sono numerose, ma la buona notizia è che a maggio in Confindustria si insedierà un adulto.