Nonostante siano passati quattro mesi dall’esplosione dell’epidemia da coronavirus, la comunità scientifica globale non è ancora riuscita a ricostruire, nel dettaglio, le tappe del suo passaggio all’uomo. Forse non succederà mai. Al momento se ne conosce il punto di origine, cioè i pipistrelli, e il punto d’arrivo, l’uomo. Manca l’anello intermedio, ossia l’animale (con ogni probabilità un mammifero) che ha fatto ospite al virus prima del suo ultimo (per ora) salto.
Come è noto almeno dal 2003, i pipistrelli sono un serbatoio naturale per questo tipo di virus. Ognuna delle 400 diverse specie che volano sulla Terra ne custodisce decine, se non centinaia. Compreso quello che, nel 2003, ha causato l’epidemia di SARS (774 vittime accertate) e quello che, dieci anni dopo, attraverso il cammello, ha infettato l’essere umano con la MERS (più di 800 morti).
Secondo alcuni calcoli, il coronavirus e il pipistrello condividono un percorso evolutivo millenario, forse anche più lungo della storia dell’essere umano sul pianeta, in cui hanno imparato a convivere senza troppi problemi. Grazie al suo particolare sistema immunitario, reso molto forte dal fatto di essere un animale volante, il pipistrello è riuscito a sviluppare una solida resistenza al virus, evitando il tipo di reazione eccessiva che si incontra nell’essere umano – che è poi la causa di tutte le complicanze, compreso il decesso.
Per quanto riguarda gli esseri umani, i primi ritrovamenti di coronavirus nel nostro organismo risalgono agli anni ’60. Gli scienziati, che ne avevano scoperto da dieci anni l’esistenza in alcune bronchiti di polli, ne individuano quattro nuove tipologie anche nell’uomo. Non sono preoccupanti: causano, ogni anno, il 30% dei raffreddori. Con ogni probabilità anche questi sono di origine animale, saltati all’uomo chissà quanto tempo fa. Tanto che non sono stati ritrovati in nessuna altra specie. In un certo senso, fa notare il New Yorker, siamo noi il loro serbatoio naturale. In totale, compresi questi quattro coronavirus, sono sette il totale di quelli che hanno attaccato l’essere umano. L’ultimo, il più violento, è il SARS-Covid-2: tutti lo conoscono, ormai, ma nessuno ha capito che strada abbia fatto per raggiungerci. Nota importante: nel 2013 è stato ritrovato in alcuni pipistrelli in Cina un suo parente stretto, un virus con un antenato comune (almeno di 50 anni fa), che condivide il 96% del patrimonio genetico. Non è lo stesso, insomma: in mezzo ci sono almeno altre comunità di pipistrelli e, appunto, un ospite intermedio di una specie diversa. Chi è?
Forse il pangolino. Il piccolo mammifero squamato, già al centro di un traffico illegale in Cina, dove viene comprato e venduto per le supposte proprietà curative delle sue scaglie, è uno degli indiziati principali. In più, secondo una ricerca condotta dal dottor Tommy Lam dell’Università di Hong Kong, sarebbero stati ritrovati in alcuni esemplari malesi contrabbandati in Cina alcuni ceppi molto simili al SARS-Covid-2. Simili, ma non uguali: il dibattito, all’interno della comunità, è acceso, le differenze sarebbero eccessive e non ci sono conclusioni specifiche.
Non solo: se si va sul luogo in cui, con ogni probabilità, è avvenuto il primo contagio (gli studi hanno concluso che è accaduto una volta sola), cioè lo spillover originario, non ci sono tracce di pangolini. All’ormai famigerato mercato di Wuhan, nello Hebei, era uso, andando contro la legge, accatastare gabbie di animali selvatici in vendita. Una situazione molto rischiosa: senza nessuna sicurezza, privi di misure igieniche, il rischio di contagio è altissimo. Eppure, secondo quanto dichiarato dalle autorità cinesi, non sono state rinvenute tracce di coronavirus in nessun animale presente nel mercato (anche se non hanno mai rilasciato dettagli sulle specie esaminate, e sarebbe stato importante). In compenso era presente sui tavoli e nei canali di scolo. In più – hanno garantito – non c’era nessun pangolino.
Insomma, una ricostruzione accurata degli eventi non è possibile. Ci sono ipotesi. Qualcuno, forse un cacciatore, forse un venditore, ha catturato alcuni pipistrelli selvatici e li ha portati al mercato, con ogni probabilità quello di Wuhan. Secondo gli studi, è avvenuto intorno a novembre 2019. Lì il virus, forse per via fecale, è entrato in una nuova specie, dove ha conosciuto l’ultima mutazione. Il passaggio finale, diretto all’uomo, può essere avvenuto in maniera casuale, sempre in quei giorni. Un individuo, tra i sette miliardi che popolano il pianeta, si è toccato il viso, o si è strofinato il naso o gli occhi. Ed è cominciato tutto.
Ripercorrere questi passaggi è importante per tre ragioni: la prima è migliorare l’igiene pubblica (dopo la SARS la Cina aveva bandito i mercati di animali selvatici, ma le tradizioni alla fine hanno prevalso). La seconda è capire bene come premunirsi di fronte alle possibili, future, forme di contagio da coronavirus. Nel 2015 uno studio dell’epidemiologo americano dell’Università del North Carolina Ralph Baric (che sta al coronavirus come Maradona al calcio), aveva evidenziato, analizzando i genomi dei coronavirus allora conosciuti,«un rischio potenziale che riemergesse un coronavirus da pipistrello». L’anno successivo, sempre lui, ma in un altro studio, aveva avvertito: «Una malattia del tipo SARS da coronavirus è pronta per emergere anche nell’uomo». Una Cassandra: nessuno lo considerò più di tanto.
Nemmeno Ralph Baric, però, poteva immaginare il potenziale distruttivo del SARS-Covid-2. Il virus è una combinazione «mostruosa» di tutte le forme di coronavirus umano già note. Come SARS e MERS, attacca i polmoni, ma condivide con gli alfa e i beta la facilità di trasmissione. Non solo. La sua capacità di attaccare il recettore ACE-2, presente nelle cellule polmonari, è raffinatissima (molto più rispetto alla varietà riscontrata nei pangolini). A questo si aggiunge la capacità di stimolare la produzione di un enzima come la furina, presente nel nostro organismo, con la quale si garantisce un solido attaccamento alla cellula. A quel punto il gioco è fatto: lancia dentro il suo RNA e provvede a infettare l’organismo. Infine, a differenza di altri virus a RNA, SARS-Covid-2 è in grado di controllare, entro certi limiti, gli errori nella sua replicazione. Ha un enzima che corregge tutti gli sbagli chimici. Ed è la terza ragione: bloccare il suo potenziale distruttivo, sviluppato in migliaia di anni, senza cadere nella tentazione (spesso imboccata da certa politica) di immaginare una costruzione ingegnerizzata in laboratorio. Una questione anche culturale. È un virus che solo adesso impariamo a conoscere. E, con ogni probabilità, dovremo averci a che fare ancora a lungo.