Mentre perquisizioni e sequestri nelle case di riposo di Lombardia e di mezza Italia annunciano la nuova collezione giudiziaria autunno/inverno 2020, quasi nessuno, stranamente, sembra chiedersi se esisterà ancora una giustizia, intesa soprattutto come attività, in grado di funzionare dopo il coronavirus. Qualche giorno fa, per la mia pagina LAB-Politica del diritto ho moderato un dibattito tra tre magistrati presidenti di uffici di primo, secondo grado e Cassazione. Ho chiesto loro di raccontare la gravità dell’impatto, le sue conseguenze e le prospettive dell’attività giudiziaria che dirigono.
Un pubblico di stupiti addetti ai lavori ha appreso che gli impiegati del Tribunale di Roma, in teoria a casa a lavorare in modalità smart o “agile”, sono in realtà disoccupati perché non è loro possibile collegarsi con la Rug, minaccioso acronimo per una orwelliana Rete Unica della Giustizia che raccoglie i registri di tutti gli uffici giudiziari italiani.
Oppure nelle cancellerie della Suprema Corte di Cassazione, il tempio della interpretazione del diritto, gli impiegati fotocopiano migliaia di pagine dei processi e dei ricorsi da distribuire ai vari giudici perché non esiste un sistema di digitalizzazione degli atti. Soltanto nella Corte di Appello di uno dei distretti giudiziari più grandi d’Europa, nella prima sezione, come riferisce il presidente Picazio, sono saltati nel periodo da marzo a maggio ben 837 processi di cui 155 con detenuti. Moltiplicati per analoghe quantità nelle altre tre sezioni, andranno ad aggiungersi al già mostruoso arretrato che oggi schiaccia la Corte di Appello del Lazio che divide un poco invidiabile primato con Venezia e Napoli.
In Cassazione dove si era riusciti in alcune sezioni a ridurre l’attesa della trattazione a una media di quattro mesi, già oggi si riempiono le udienze al 2021. In questo clima non è un interrogativo ozioso quello di chiedersi non solo quando mai verrà fatta luce per gli indagati e per le vittime del Coronavirus, ma se sarà possibile garantire uno standard minimo di giustizia a tutti
A questo cataclisma il governo ha dato un’imprevedibile e fantasiosa risposta che al pari di altre ideazioni nel settore della prevenzione sanitaria ne illustrano le velleità e i vistosi limiti: nel settore giudiziario, la risposta si chiama processo “da remoto” come “modello preferenziale“ da introdurre nelle aule italiane, un po’ come quei giocatori d’azzardo con le tasche svuotate che giocano al rilancio grosso nell’illusione di imbroccare il colpo fortunato.
In sostanza, non essendo possibile riempire le aule della solita folla di avvocati, magistrati, imputati e testi, le si smaterializza applicando alla procedura la tecnica dello smart working: tutti collegati da ogni dove mediante un’app. In questo caso il programma scelto in via esclusiva è Teams di Microsoft scelto dal ministero secondo imperscrutabili criteri.
Invece di rinforzare il personale amministrativo e magari reclutare con un serio programma nuovi magistrati, accorciando i tempi di attesa dei vari concorsi, il ministro Alfonso Bonafede ha preferito implementare la fornitura di schermi televisivi per regalare una botta di futuro dimenticandosi di avvisare sul punto un interlocutore obbligato che se ne è risentito parecchio bocciandogli il giocattolo: il Garante per la protezione dei dati personali.
La cosa ha un suo rilievo perché, come sappiamo, a giorni sarà disponibile un’altra favolosa applicazione, “Immuni”, l’ultima trovata del commissario Domenico Arcuri, a corto di mascherine ma non della stessa euforica voglia di modernità, che dovrebbe tracciare ogni singolo passo della nostra giornata alla caccia dei famigerati “asintomatici”, gli untori di oggi. E i problemi con il Garante saranno gli stessi.
Poche cose raccontano l’inadeguatezza e la velleitaria improvvisazione di questo governo, di questo ministro e dei suoi consiglieri quanto la faciloneria con cui da un giorno all’altro si è dato vita al progetto di “remotizzare” la giustizia italiana con l’entusiastica collaborazione di una parte della magistratura. Il risultato, come vedremo, è la concreta, pericolosa possibilità di buttare al vento anche una delle non poche necessarie riforme per modernizzare i tribunali italiani.
Una premessa: l’esplosione della pandemia ha innescato all’inizio un clima di rivolte e terrore nei tribunali italiani dove i magistrati avevano preso a celebrare le udienze sbarrando le porte al pubblico, ai testimoni e agli avvocati in attesa delle cause successive, creando cosi in diverse occasioni pericolosi assembramenti nei corridoi e poi una serie di proteste che dai fori locali si sono trasferite a tutto il paese con un’astensione indetta dagli Ordini in alcuni casi rifiutata e contestata dai magistrati come illegittima.
Provvidenzialmente è arrivato il lockdown che dal 9 marzo ha chiuso la società italiana e anche i tribunali. Il governo ha quindi stabilito nella prima versione del Cura Italia la sospensione dei processi civili e penali con qualche eccezione per casi urgenti e processi con detenuti per cui il ministro Bonafede ha disposto l’uso della modalità “da remoto”.
Con una novità però non da poco. L’imposizione dell’applicazione da utilizzare in via esclusiva: Teams di Microsoft, l’erede del “vecchio” Skype, all’uopo innestata su un canale “riservato” al ministero di Giustizia. E infatti la procedura prevede che disposte orari e modalità del collegamento dai funzionari della Direzione dei Sistemi Informativi del ministero (Dgsia), il Giudice che funge da host della seduta invita al collegamento le parti (pm e difensori) in veste di client.
Teams ha qualche pregio come per esempio la possibilità di consentire il dialogo vocale e trasmissione in diretta di allegati, utilizzando una funzione di messaggistica incorporata. Ma il suo uso è macchinoso rispetto ad applicazioni più agili utilizzate da scuole, università e professionisti per la comunicazione, poiché consentono la contemporanea visione di centinaia di persone. Cosa che Teams non consente arrivando ad ospitare sullo schermo al massimo quattro interlocutori.
La novità è stata accolta con un qualche mugugno dagli avvocati penalisti da tempo convinti che sia in atto una strisciante voglia di cambiare le regole processuali dematerializzando le aule sulla rete, una cosa rifiutata come una congrega di luddisti rifiuterebbe un’invenzione demoniaca che levasse loro il lavoro, ma viste le circostanze emergenziali hanno accettato e firmato una serie di protocolli da foro a foro per cercare di disciplinare una procedura che presentava una carenza da poco: non ha un regolamento o una normativa che la disciplini alla stregua dei passaggi dei processi ordinari.
Dopodichè come sta avvenendo per le regioni del Nord e ad altre categorie produttive, i penalisti hanno cominciato a spingere per il riavvio dell’attività ordinaria, sia pure con le dovute precauzioni (fasce orarie, mascherine, accessi limitati alle aule).
La situazione è precipitata in sede di conversione del decreto, quando qualcuno ha suggerito al ministro di inserire un paio di commi esplosivi. Col primo (12bis) si prevede la totale “dematerializzazione” del processo in cui non solo gli imputati detenuti ma anche i difensori, pm e parti civili si disperdono “remotamente”. E non solo, la medesima sorte è prevista per alcune categorie di testi, agenti di polizia giudiziaria, periti e consulenti, mentre un ordinario cittadino, magari per ripetere un innocuo verbale di furto deve rischiare la salute (lasciamo perdere i risvolti costituzionali).
Col secondo comma, denominato 12 ter, il ministro remotizza pure i collegi giudicanti e le giurie popolari nei processi d’Assise. Ora immaginate il passaggio repentino dall’aratro al motore a scoppio ed avrete ancora un’idea approssimativa di cosa è il mutamento partorito da Alfonso Bonafede negli uffici giudiziari dove gli avvocati non riescono ad ottenere on line una sentenza o un fascicolo se non in pochi casi e sempre beninteso dopo aver fatto la fila per pagare i diritti.
Per il 27 Aprile, il Tribunale di Roma ha deciso di avviare la storica svolta di celebrare un processo di 60 imputati, buona parte detenuti, totalmente da remoto. In aula siederà il Tribunale ma non gli avvocati, i testi, il Pubblico ministero.
Per ognuno di loro il Tribunale ha disposto una collocazione precisa e obbligatoria, presumibilmente secondo le indicazioni operative del gestore del servizio telematico, che non è un magistrato. Gli avvocati obbligatoriamente in studio, accorpati in modo che ciascuna difesa parli da un solo schermo. Dunque per i difensori non opererà l’obbligo di «distanza sociale» invocato dai magistrati per dematerializzare un processo. Ed altro si potrebbe dire. Ma prima ancora di arrivare all’inevitabile scontro con i legali è il Garante dei dati personali, attivato con una specifica segnalazione dall’Unione Camere Penali a intervenire e con modi formalmente garbati ma duri nella sostanza.
Antonello Soro ha lamentato di non essere stato consultato in una questione di sua pertinenza per le gravi implicazioni derivanti dal decreto legislativo 51 del 2018 che impone «la piena applicabilità della disciplina di protezione dati, anche ai trattamenti di dati svolti nell’esercizio della funzione giurisdizionale».
Tra le righe il Garante non ha mancato di ricordare che le leggi americane concedono alla autorità federali l’indiscriminato accesso a tutti i tipi di dati custoditi presso i server delle compagnie americane, Microsoft compresa. Ecco: immaginate una camera di consiglio sulla trattativa Stato Mafia, o le intercettazioni di un presidente della Repubblica gelosamente custodite da uno Stato straniero. Un intervento che presumibilmente verrà replicato anche per la nuova applicazione di contact tracing varata dal governo.
È possibile che l’intemerata del garante ponga anticipata e ingloriosa fine alla goffa rivoluzione digitale del governo Conte, ma sarebbe sciocco limitarsi a prendere atto e magari tirare un sospiro di sollievo: la giustizia italiana (come la sanità e la pubblica amministrazione) ha bisogno di una rivoluzione digitale, dell’informatizzazione dei suoi uffici e anche di procedure alternative a quelle orali che prevedano in determinati casi di semplice definizione l’uso della tecnologia da remoto.
Ma la scelta non può essere imposta dall’alto, essa, come ad esempio per scelte come il patteggiamento, spetta al difensore che da solo può valutare un’eventuale rinuncia ad un diritto come il contraddittorio orale.
Occorrerebbe un grande patto, un new deal (modello accordo Lama-Agnelli sulla contingenza nel 1977) che coinvolgesse le componenti della giustizia, secondo un canone di reciproca fiducia con cui stabilire poche linee guida per la modernizzazione della giustizia, anche i soldi del Mes sarebbero benvenuti.
Non può essere questo il governo e questo il ministro con cui farlo, ma va fatto perché il crollo definitivo dell’apparato giudiziario può mettere a rischio il Paese non meno di una crisi economica. Ne riparleremo presto.