Il governo si appresta ad allentare le misure restrittive, e dichiara che questa apertura potrebbe far aumentare di nuovo i contagi, ma rassicura che è pronto a spegnere subito i primi focolai rafforzando la medicina su territorio. Eppure ancora non lo fa, che aspetta? Dopo 40 giorni e migliaia di casi ancora sulle terapie c’è poca chiarezza. Chi avesse i primi sintomi che deve fare? Ormai tutti sanno che i primi sette giorni sono fondamentali, è in quel lasso di tempo che bisogna intervenire con terapie mirate per scongiurare il peggio, e non saturare le terapie intensive. Ma al momento non esiste un protocollo nazionale.
Lo dico per esperienza diretta, io sono tra quelli che hanno accusato dei sintomi riconducibili al coronavirus intorno al 20 marzo e che hanno seguito la prassi avvertendo il medico di base, senza che servisse a qualcosa. E così quando la febbre è iniziata a salire ho trascorso notti insonni (chissà quanti altri come me) e i giorni in allerta perché sprovvista di un saturimetro per misurare l’ossigenazione del sangue e il ritmo del respiro. So che non si doveva superare il massimo di venti inspirazioni al minuto… ma chissà quante volte ho superato quel limite, avevo quasi sempre il fiato corto, a volte non riuscivo nemmeno a parlare al telefono, dovevo fermarmi ogni dieci parole, ansimante, col battito cardiaco accelerato.
Non so quante volte mi sono presa il polso, sempre in tensione, nel timore che la situazione peggiorasse. E appena mi sentivo meglio, passavo un bel po’ di tempo al telefono raccontando a qualche amico in modo concitato i miei sintomi, per farmi dire se fossero gravi, perché tanto era inutile chiamare un medico.
Come fa uno da solo a capire se sta sopravvalutando la situazione, o al contrario la sta minimizzando? I miei tentativi di avere un un’indicazione chiara, di farmi fare un tampone, rivolgendomi alle varie autorità mediche, erano falliti uno dopo l’altro.
Completamente rimesso a te stesso, senza appoggi e indicazioni esterne, per forza di cosa dubiti, sbandi, vacilli, non è più detto che tu sia in grado di valutare la realtà. La malattia è sempre reale ma può divenire intricata e indecifrabile nel tormento di non sapere se l’hai contratta o no, e nel caso tu l’avessi, a che stadio si trova; monta una rabbia giustificata quanto inutile, così come l’attenzione ossessiva ai propri sintomi, moltiplicata dall’insoddisfazione per l’assenza di una vera diagnosi.
Mi torna in mente il “Malato immaginario” l’ultima commedia che Molière mise in scena per il suo re. Borbottando di viscere, di farmacisti e di clisteri, si presentò in scena indossando la lisa vestaglia di Argan, il “malato immaginario”. Alla terza replica un conato di sangue gli sporcò la veste ma il grande drammaturgo volle terminare la rappresentazione, per non privare i suoi compagni della paga. Rientrato nella sua dimora, si sdraiò sul letto e morì.
La rottura di una vena del polmone provocò una sconvolgente esondazione della finzione nella realtà, in un fulminante contrappasso: Molière, che aveva trattato in modo beffardo gli ipocondriaci e dei loro medici compiacenti, era stato da costoro beffato. Temendo di passare per ipocondriaco aveva ignorato il suo male. Ma al tempo di Molière la medicina latitava, spesso si interpretavano in modo distorto i sintomi, confondendoli con i propri stati d’animo.
E così ormai è un mese che sto sola in casa. Sono guarita? A me pare proprio di sì. Posso uscire? Non si sa. Forse nel frattempo dovrei impiegare il tempo, rendendolo utile. Ma se persino chi sta bene non riesce ad evadere mentalmente dal virus, figuriamoci chi ce l’ha, o crede di averlo. Figuriamoci se riesce a leggere un libro, a guardare un film, ossessionato dal timore che qualcosa vada storto e la situazione da un momento all’altro precipiti…
Sacrosanta quindi la diffidenza verso questo sistema che simula di prendere il malato in carico, ma in realtà lo tratta come un seccatore, un guastafeste che non ha capito che deve cavarsela da solo sino a che non peggiora.