La finanza si è sempre più svincolata dal controllo degli Stati poiché il flusso di fondi, grazie soprattutto a nuove regolamentazioni e ai mezzi tecnologici, si muove secondo quella che spesso viene definita una nuova forma di a-spazialità, ossia la capacità di spostare somme ingenti di denaro da un posto all’altro del mondo anche a velocità luminari (turbo).
Uno dei principali effetti di questo cambiamento è stato mettere in discussione le principali varietà di capitalismo che si sono affermate nella storia, caratterizzate dalla presenza di Stati che presiedono economie «porose» ma dai confini ben delimitati.
Le imprese sono state a lungo strategiche per il finanziamento degli Stati, ma la novità è che la nazionalità delle stesse ha smesso di essere rilevante. La possibilità di far quotare azioni a New York piuttosto che a Londra o a Hong Kong, ha attirato aziende da tutto il mondo.
Per rendersi conto dell’entità di questo cambiamento basti pensare che alla fine degli anni Novanta del secolo scorso si contavano più società straniere (non statunitensi) quotate sui mercati statunitensi che imprese tedesche quotate sulla Borsa tedesca. Risultato: è diventato possibile per una azienda non far più parte del proprio sistema finanziario nazionale.
Questo sviluppo ha innescato una dinamica che è entrata in collisione con le caratteristiche delle varie tipologie di capitalismo esistenti: infatti, se interi settori istituzionali possono essere bypassati, la complementarità sulla quale queste forme di capitalismo si sono rette per decenni viene minata.
In letteratura esistono vari tentativi di classificare i sistemi economici nazionali in «varietà» di capitalismi più o meno coerenti. Una prima, essenziale distinzione, individua due forme principali di capitalismo tra le economie avanzate18:
• economie di mercato liberali (LME), per esempio gli Stati Uniti;
• economie di mercato coordinate (CME), per esempio la Germania.
Questa distinzione tiene conto di diversi fattori. Il primo è che le imprese e le loro strategie sono gli elementi principali dell’economia, e diverse varietà di capitalismo facilitano diversi tipi di imprese e strategie.
In particolare, le configurazioni a livello nazionale determinano quali siano le strategie più fruttuose a livello di impresa: nei mercati LME, le imprese interagiscono per lo più attraverso relazioni basate sul mercato, mentre nel modello CME le reti di imprese hanno relazioni più collaborative e molto meno basate sul mercato.
Normalmente i CME sono caratterizzati da protezioni più forti per i dipendenti, mentre i LME da un maggiore sviluppo dei mercati finanziari. Ne segue che nel modello CME, come osservano Hall e Soskice19, le imprese e i lavoratori sono più disposti a investire in attività specializzate, mentre nel modello LME il focus è spostato sulle attività commutabili, ossia attività che preservano un valore anche se adattate a scopi diversi, come le competenze generali o le tecnologie multiuso.
Questo si riflette sulle caratteristiche delle industrie leader in un’economia nazionale: negli Stati Uniti, le tecnologie dell’informazione, l’ingegneria medica e le biotecnologie (tipicamente finanziate tramite il mercato azionario) sono tra le industrie leader, mentre in Germania sono l’ingegneria, l’ingegneria nucleare e l’industria meccanica (che richiedono una forza lavoro altamente qualificata e specializzata).
Questa classificazione tuttavia si scontra con i dati dei paesi dell’OCSE20. Per ovviare a questa difficoltà, sono state proposte altre classificazioni. Una in particolare delinea cinque tipologie di capitalismo dove ogni tipologia è distinta in base alla capacità del sistema sociale di fornire un ambiente più favorevole ad alcuni tipi di attività economiche e meno per altre21. Queste cinque tipologie sono:
• economie basate sul mercato (modello anglosassone), specializzate in attività in cui un adattamento veloce e un buon collegamento industria/università contano, ossia biotecnologie, informatica ed elettronica.
• economie socialdemocratiche (modello scandinavo), che puntano sulle attività legate alla salute e le industrie legate alle loro ricche risorse naturali (per esempio la produzione della carta);
• capitalismo asiatico (quello della Corea e del Giappone), che eccelle in computer, elettronica e macchine;
• capitalismo sudeuropeo (o mediterraneo), specializzato in industrie leggere e attività a bassa tecnologia;
• capitalismo europeo continentale (quello della Germania), l’unico a non essere specializzato in pochi settori.
Questa analisi si basa su cinque aree istituzionali fondamentali che coinvolgono le aziende: i mercati dei prodotti, il mercato del lavoro, l’intermediazione finanziaria, la protezione e la previdenza sociale, l’istruzione.
Ancora una volta, queste aree istituzionali mostrano notevoli complementarietà. Per esempio, le tutele dell’occupazione e le garanzie di assistenza sociale incoraggiano a investire nella formazione dei lavoratori. D’altra parte, la forte concorrenza sul mercato dei prodotti incoraggia pratiche occupazionali flessibili (meno protette), che scoraggiano gli investimenti su lavoratori dotati di competenze specifiche e promuovono la concorrenza nel settore dell’istruzione.
Tutti questi modelli sono stati messi in discussione dalla finanziarizzazione, specialmente quella che ha raggiunto il suo picco alla fine degli anni Novanta. Questi anni, infatti, possono essere legittimamente guardati oggi come il momento di maggior successo del ruolo della finanza come fattore essenziale di crescita economica.
I fautori di questa idea hanno sostenuto che l’introduzione di un mercato finanziario fosse l’equivalente economico di fornire vaccinazioni, acqua pulita e alfabetizzazione universale, ovvero un servizio base e che questo fosse un passo inequivocabilmente positivo verso la strada della crescita economica e dello sviluppo. Il decennio successivo, quello dei primi anni Duemila, ha mostrato quale disastro si possa generare quando si fa dipendere troppo il benessere della società dai mercati finanziari.
La crescente portata e l’influenza dei mercati finanziari hanno messo in discussione la coerenza interna anche di quelle tipologie di capitalismo in cui la finanza aveva un ruolo meno pronunciato.
Tanto per citare due casi esemplari, in Germania molte imprese pubbliche negli anni Novanta hanno iniziato a proclamare il loro impegno a favore del valore per gli azionisti per migliorare la loro attrattività agli occhi degli investitori stranieri, e per lo stesso motivo le aziende giapponesi hanno cominciato ad abbandonare il modello tradizionale basato sulla sicurezza (il posto di lavoro a vita).
In sostanza, il potere contrattuale dei singoli Stati è stato indebolito, in alcuni casi quasi azzerato, dalla presenza di un capitale sempre più mobile, grande e volubile, i cui interessi sono quelli di una compagnia transazionale che non sono quelli del paese da cui proviene o dei lavoratori che impiega.
Questa forma di capitalismo basato sulla finanziarizzazione ha dunque indebolito, e in alcuni casi rotto, gli storici patti nazionali tra lavoratori e imprese (o la sua classe dirigente) in quanto le società e gli investitori non sono più legati alla nazione o al luogo da cui provengono.
Così, i singoli Stati si sono progressivamente trovati a dover tenere sempre più in considerazione le esigenze degli investitori, i quali godevano anche del sostegno di una teoria e di una narrazione forte e apparentemente coerente della crescita economica e del ruolo essenziale della finanza. Il cambiamento, e per certi versi l’impoverimento, delle forme di capitalismo a vantaggio della finanziarizzazione ha avuto anche conseguenze politiche.
da “Un filosofo a Wall Street”, di Emiliano Ippoliti, Egea 2020, 29 euro