Un gioco che viene anche troppo facile, con la grande letteratura, è quello di cercare profezie e conferme. È quasi impossibile non trovare un’intuizione, una proiezione metaforica, una certificazione o un presagio di ciò che accade e accadrà agli umani. Così, era naturale che ci venissero in soccorso, nei giorni della pandemia, Lucrezio o Boccaccio, Camus e Manzoni. Anche Saramago, risalito nella magra, contratta classifica dei bestseller digitali: il suo Cecità è stato letto o riletto come la stilizzazione di un improvviso e angosciante contagio. Ma c’è un romanzo che poco o per niente è stato citato, che non contiene visioni fantascientifiche né allegorie. È di una asciuttezza disarmante. Un capolavoro trascurato, per una ragione legata alla pigrizia intellettuale. Quando si attribuisce una impegnativa quanto retorica etichetta – «il più grande scrittore americano vivente» – si finisce in qualche modo per neutralizzare chi la riceve.
Così, Philip Roth (1933-2018) è stato a lungo il più grande scrittore americano vivente; ma molti si erano fermati a Pastorale americana (1997). Insistendo su considerazioni trite, sia in positivo che in negativo: racconta il sesso, la vecchiaia, la morte, è misogino, è il Proust della prostata. Ma gli ultimi due romanzi pubblicati prima dell’addio – rigorosissimo e mai smentito – alla scrittura sono bellissimi. Se in L’umiliazione scrive, giocando ancora una volta con un alter ego, «aveva perso la sua magia», in Nemesi la ritrova. Ecco, Nemesi! Mi impressionò alla prima lettura – il libro usciva dieci anni fa esatti – che tale forza venisse da un autore quasi ottantenne. E mi impressionò che, in barba a una sua boutade da misantropo erotomane («Si rivolga a McEwan se vuole leggere di bambini, a me se vuole leggere di figa»), avesse scritto di bambini. E in modo commovente.
In una torrida estate, l’estate del 1944, si abbatte sulla comunità di Newark l’epidemia. Poliomielite. «I pochi privilegiati sparivano dalla città, mentre noialtri restavamo lì a fare esattamente quello che non avremmo dovuto». Le sirene delle ambulanze rompono il silenzio. Le notizie false, spinte da una superstizione spesso xenofoba, dilagano. Gira la voce che a portare il contagio siano stati gli italiani. I casi cominciano ad aumentare, si moltiplicano. E sono misteriosamente concentrati in un’area: «Guardate Weequahic, dicevano, una delle zone della città più pulite e igieniche, eppure la peggio colpita». Non c’è una spiegazione. Solo numeri, solo «gli spaventosi numeri che certificavano l’avanzata di un’orribile malattia». E solo le sirene in lontananza: «Ormai si sentivano giorno e notte, accendersi e spegnersi». Aumentano i ricoveri, i casi di persone che non riescono a respirare da sole. La comunità resta sospesa: chiudere tutto? Non chiudere? Oscilla, assediata dalla paura.
Un ragazzo, Bucky, l’animatore di un campo giochi, tenta un discorso di buon senso, davanti a un gruppo di genitori in apprensione: «Io non sono un medico. Non sono uno scienziato. Non so perché attacca quelli che attacca. Credo che nessuno lo sappia. Ecco perché tutti cercano di scoprire di chi o di cosa sia la colpa». Qualcuno obietta: «E gli italiani? Devono essere stati gli italiani!». E lui: «Non sono stati gli italiani. Sentite, non dovete lasciarvi divorare dalla paura. L’importante è non contagiare i bambini con il germe della paura. Ne usciremo, credetemi. Faremo ognuno la nostra parte e resteremo calmi e faremo tutto quel che possiamo…».
Quando la parola, invece, la prende un medico, parla così: «Per tutti noi, in quanto medici, è doloroso restare a guardare il diffondersi di questa terrificante malattia senza poter far nulla per fermarla». Quando la parola la prende chi è stato toccato dalla malasorte, chi ha perso qualcuno, parla così: «Perché allora è morto? Dove sta la giustizia? (…) Fai solo la cosa giusta, la cosa giusta e la cosa giusta e la cosa giusta. Mille volte la cosa giusta. Cerchi di essere oculato, di essere ragionevole, di essere premuroso. E poi succede questo? Qual è allora il senso della vita?».
Una grande opera di letteratura può permettersi di far risuonare una domanda così, una domanda imponente e imbarazzante. Roth si dispone a osservare l’epidemia e i suoi effetti devastanti – sanitari, sociali – con un occhio lucido, disincantato. Spietato e pietoso insieme. C’è l’ottusità, la grettezza. C’è la gente spaventata («Sono atterriti, perciò si preoccupano di qualunque cosa»). Ma c’è anche la forza d’animo, lo slancio di chi non vuole arrendersi. La rabbia di fronte all’indecisione di chi amministra: «Quand’è che qualcuno deciderà qualcosa!». C’è il lutto insopportabile e c’è il mondo che, comunque, continua a girare. I desideri altrui che non si spengono: «Che differenza fa per le loro famiglie? Abbracciarsi, baciarsi e ballare come adolescenti malati d’amore ignari di tutto… serve qualcosa a qualcuno?».
Bucky – il ragazzo che non si dà pace di fronte alle vittime, perlopiù bambini, di fronte alla città che chiude tutto e si chiude – vuole trovare una ragione a questa assurda nemesi, a questa condanna senza colpa. Si rivolta contro Dio, non accetta l’idea di perdonare: «Come poteva esserci il perdono – per non parlare degli alleluia – di fronte a una tale folle crudeltà?». Il padre della sua ragazza lo incoraggia; gli dice che ha dimostrato equanimità, competenza, e questo è molto. «Bucky, ora sei scosso da quel che sta succedendo, ma anche agli uomini forti viene la tremarella. Devi capire che anche molti di noi sono scossi, nonostante siamo più vecchi e più ferrati di te in fatto di infermità».
Vuole trovare una necessità a quanto accaduto. Vuole trovare il suo ruolo, il ruolo giusto, anche se sa di non poter fare molto. «Non è questione di fare» conclude. «È questione di esserci!».
Nemesi consola nell’unico modo in cui la letteratura autentica può consolare: non consolando. Costringendo il lettore a guardare alla realtà senza che sia edulcorata, offuscata, attenuata la sua insensatezza. Puoi, come Bucky, piangere di disperazione e di nostalgia – per la tua vita com’era: la luce prodiga di luglio che si stende densa sopra ogni cosa, la polpa di una pesca; una serata trascorsa a ballare con una ragazza I’ll be seeing you con la voce di Billie Holiday. Puoi sentirti impotente. Puoi cercare impetuosamente una ragione a ciò che non ha ragione, cercare una necessità per qualcosa di «insensato, contingente, incongruo e tragico». Devi accettare di non trovarla. Devi accettare quei quattro aggettivi – esatti – che solo un grande scrittore è capace di individuare. Insensato. Contingente. Incongruo. Tragico.