Un gigante nelle sabbie mobili della sua stessa propaganda. La descrizione della Lega di Matteo Salvini coniata da Mario Lavia è senz’altro efficace. Così come è innegabile che la figura dello stesso Salvini rende difficile immaginare una Lega di governo, a meno di dirompenti scenari post europei.
E per questo Lavia racconta della solitudine di Giorgetti, che vorrebbe rientrare nel gioco della responsabilità nazionale, dei rimpianti degli amministratori della vecchia guardia, abituati ad interloquire pragmaticamente con i governi nazionali. Tutto giusto, tutto vero. Eppure.
Eppure ci sono diverse domande a cui bisogna rispondere, se vogliamo ipotizzare una svolta del Carroccio: chi si metterebbe alla testa del rinnovamento? E che Lega sarebbe senza Salvini? Quali parole d’ordine sostituirebbero l’armamentario salviniano? Quale sarebbe la constituency di riferimento? Quale, argomento inscindibile dall’azione politica, il consenso cui potrebbe puntare?
La risposta alla prima domanda appare già ardua. E per la forza di cui Salvini gode nella Lega, tra le migliaia di parlamentari, amministratori e politici locali eletti grazie al “suo” consenso, e per la mancanza di leader alternativi. Difficilmente potrebbe essere Giorgetti, il nuovo segretario: non perchè non ne abbia le capacità, ma perché la sua storia politica ci ha dimostrato che non è quello il ruolo in cui si riconosce egli stesso.
Anche nella destituzione di Bossi e del suo cerchio magico, nel lontano 2012, Giorgetti giocò un ruolo senz’altro decisivo ma rigorosamente dietro le quinte. Zaia, allora? Da tempo si rincorrono le voci su un possibile upgrade al livello nazionale del presidente del Veneto, ma questo scenario ci porta alla seconda domanda: che Lega sarebbe, quella senza Salvini?
In questi anni, il segretario leghista ha posizionato il movimento all’estrema destra, e così facendo gli ha anche dato una dimensione nazionale, con risultati a doppia cifra su tutto il territorio, amministratori eletti in ogni parte d’Italia, egemonia indiscussa nel campo del centrodestra. Sarebbe in grado Zaia, volto da due decenni della Lega autonomista se non addirittura secessionista, di tenere insieme tutto questo? E con quali istanze, con quali parole d’ordine?
Mantenere il sovranismo populista di Salvini, farebbe di tutta l’operazione un inutile maquillage che non renderebbe “spendibili” i voti leghisti; abbandonarlo potrebbe voler dire rinunciare alla dimensione nazionale e vedere tutti quei consensi costruiti sulle tematiche della destra sovranista, anti europea e no euro, trovare una nuova e confortevole casa nei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Senza un leader forte e riconoscibile a livello nazionale, senza un’identità nuova, è dunque difficile ipotizzare che la Lega possa mantenere le attuali percentuali, e anche se un’operazione del genere dovesse davvero concretizzarsi, c’è da chiedersi quale beneficio concreto porterebbe al quadro politico nazionale.
Da anni ormai viene “nutrito” un elettorato sovranista e populista, che è cresciuto fino ad oltre il 40% costituito dalla somma di Lega e FdI.
Una svolta moderata da parte della Lega, con Meloni invece ben salda sulle sue posizioni, potrebbe risolversi dunque in un mero cambio di consonante: il fattore S potrebbe diventare il fattore M, se Giorgia Meloni dovesse ereditare buona parte dell’elettorato oggi leghista.
Insomma, una scorciatoia che porta al punto di partenza, ovvero un blocco consistente di consensi inutilizzabile nel quadro politico. E tutto questo ipotizzando che Salvini tranquillamente accetti di uscire di scena.
Ecco allora che l’unica strada percorribile, per un equilibrio nuovo nella politica italiana, è quella maestra delle elezioni, quando si terranno: nella campagna elettorale e nelle urne, gli avversari del sovranismo populista dovranno trovare argomenti e istanze in grado di ridimensionare quella destra, a prescindere da chi la guiderà.