Costituzione e coronavirusNella fase 2 la democrazia dovrà preoccuparsi della «sicurezza economica»

Il governo ha preso dei provvedimenti che hanno limitato le libertà dei cittadini in nome della loro «sicurezza sanitaria». Era inevitabile ed è stato accettato, ma adesso c’è bisogno di un salto di qualità e di proteggere gli italiani dalle difficoltà della crisi

VINCENZO PINTO / AFP

In un eccesso di verve complottista, Giorgio Agamben, commentando sulle pagine del Manifesto il decreto-legge del 23 febbraio (recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica), lo considerava una mera espressione della volontà del Governo di utilizzare «una supposta epidemia» per indurre «un desiderio di sicurezza» e soddisfarlo per mezzo di un provvedimento d’eccezione ingiustificatamente ampio. 

Eppure il pensiero di Agamben ha attraversato molti di noi, forse confortati da una prospettiva che, per quanto sorretta da argomentazioni tutt’altro che convincenti, appariva la più digeribile. Ma la realtà si è rivelata ben peggiore di ciò che appariva e improvvisamente la durezza di quel primo provvedimento, e di quelli adottati in seguito, è stata non solo compresa, ma addirittura invocata con forza a tutti i livelli, istituzionali e non. 

In questo quadro vi sono per lo meno due domande che meritano un tentativo di risposta: in che misura i provvedimenti in esame possano considerarsi legittimi; e che senso abbia avuto renderli sempre più stringenti “gradualmente”, anziché adottare sin da subito il modello “autoritario” cinese. 

Con riferimento alla prima questione, diversi costituzionalisti, in questi giorni, ci hanno ricordato che la Costituzione offre copertura ai provvedimenti di emergenza. Lo fa l’art. 16, quando riconosce la possibilità di limitare la libertà di circolazione per “motivi di sanità o di sicurezza”; se ne preoccupa l’art. 17, che consente di vietare riunioni in luogo pubblico “per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”; e vi provvede l’art. 41, laddove ricorda che l’iniziativa economica privata “non può svolgersi … in modo da recare danno alla sicurezza”.

Sul piano degli standard internazionali, poi, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del ’48, esigenze di sicurezza hanno sempre giustificato limitazioni dei diritti e delle libertà individuali. Certo, la limitazione incontra a sua volta dei “limiti”, essendo necessario che la stessa sia prevista per legge, persegua uno scopo legittimo e sia necessaria al fine di realizzare quello scopo. Ma nessuno mette in dubbio che a queste condizioni la limitazione sia legittima.

Veniamo adesso alla seconda questione, che finisce per avere a che fare con il concetto stesso di democrazia, o meglio con l’idea di Piero Calamandrei per cui democrazia vuol dire anzitutto che «il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto». Resta da chiedersi infatti perché il governo, anziché adeguarsi al modello cinese e imporre misure così restrittive immediatamente, abbia preferito inasprirle con gradualità, muovendosi in un’ottica rispondente a una precisa strategia non solo comunicativa, ma anche e soprattutto decisionale. 

Ebbene, la risposta in fondo la conosciamo ed emerge con chiarezza dalle parole pronunciate da Conte sin dall’inizio dell’emergenza sanitaria e intese a cogliere il sentire della popolazione: avevamo bisogno di tempo per assumere piena consapevolezza di quello che stava accadendo, fino al punto da essere noi stessi, o almeno una parte di noi attraverso i nostri amministratori locali, a chiedere l’inasprimento delle misure necessarie per contenere la diffusione del virus. 

Ma tutto ciò non è solo frutto di una suggestione dettata dalla paura. È un susseguirsi di provvedimenti mossi da un bisogno imprescindibile di sicurezza: quella sicurezza pubblica continuamente richiamata dalla Costituzione così come dagli strumenti internazionali di tutela dei diritti fondamentali; e che se calata nella sua dimensione normativa – per dirlo con le parole del costituzionalista Alessandro Pace – «identifica lo stato psicologico della collettività» che chiede di sentirsi «sicura nella persona e nei beni». 

D’altra parte, quando si parla di “sicurezza nei beni” si allude soprattutto alla sicurezza economica. E la c.d. fase 2 che sta per iniziare dovrà rispondere necessariamente anche a questa esigenza, contemperandola con la dimensione securitaria di più immediata percezione, ossia quella personale. 

La prospettiva che sembra delinearsi, allora, appare molto diversa da quella da cui siamo partiti, rendendo per lo meno plausibile l’idea per cui non è il governo che ha indotto «un desiderio di sicurezza» nel popolo, ma è il popolo che lo ha manifestato e che continua a farlo, inducendo il Governo a darvi soddisfazione.  Ed è sempre il popolo che in questo modo tenta di esercitare la propria sovranità, sperimentando il senso della democrazia ai tempi del coronavirus.

*L’autore è professore ordinario di diritto internazionale all’Università di Napoli Federico II