Nel mezzo del dibattito globale sulla pandemia, è passato ingiustamente inosservato un episodio che non ha precedenti nella politica internazionale: il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita ha dato del bugiardo al presidente russo. Cioè, non ha fatto allusioni, glissato sull’ambiguità del diplomatichese o fatto ricorso a doppi sensi per chi sa leggere tra le righe. Gli ha detto che mente. Nero su bianco. Pubblicamente.
A esasperare così il principe Faisal bin Farhan ibn Saud è stata l’affermazione fatta da Vladimir Putin in una videoconferenza al Cremlino venerdì, durante la quale ha dato ai sauditi la colpa di aver fatto saltare l’accordo Opec+ sui tagli alla produzione del petrolio per sostenerne il prezzo, allo scopo di affossare i produttori di shale oil americani. «Una dichiarazione completamente priva di verità», ha detto, anzi, scritto in una nota del ministero degli Esteri del regno, ricordando che è stata proprio la Russia a rompere l’accordo, nonostante «l’Arabia Saudita e altri 22 Paesi avessero cercato di persuaderla a prorogarlo».
Anche il ministro dell’Energia saudita, Abdulaziz bin Salman, fratellastro del principe ereditario Mohammed bin Salman, ha dato del bugiardo al suo omologo russo Alexandr Novak, che ha ripetuto le accuse ai sauditi del suo principale: parole «categoricamente false e contrarie ai fatti». In effetti, basta aprire qualunque giornale o agenzia di notizie economiche del 5 marzo per leggere resoconti anche molto dettagliati di come sia stato proprio Novak a mandare a gambe all’aria l’Opec+ nella riunione a Vienna il 5 marzo scorso. E di come il portavoce di Rosneft – principale produttore di petrolio russo, guidato da Igor Sechin, il capofila del “falchi” putiniani, da sempre contrario all’accordo sui tagli – abbia esultato per la rottura dell’accorso: «Se cedi sempre davanti ai partner, non sono più partner, sono qualcos’altro. Vediamo cosa faranno ora i produttori di shale americani», ha detto gongolante.
Tutto è online, disponibile per chiunque: il plauso dei propagandisti ufficiali di Mosca sulla decisione di rompere, che avrebbe fatto riconquistare alla Russia i mercati perduti agli odiati americani, e la preoccupazione degli economisti indipendenti e anche di molti top manager di altre compagnie petrolifere russe, che hanno esplicitamente accusato Sechin e il suo amico presidente di aver combinato un disastro, facendo crollare il valore del rublo del 25 per cento in una settimana.
Il principe-ministro Faisal bin Farhan si è chiesto nella sua nota molto poco diplomatica che senso avesse per i russi «falsificare i fatti» di una situazione dove tutto è stato messo a verbale. Una domanda che sorge spontanea: un conto è mentire ai propri sudditi, manipolati da spin-doctor e troll, un altro è dire bugie nei vertici internazionali. Qualche analista sospetta che Putin abbia voluto salvarsi la faccia, dando la colpa del suo errore ai sauditi, nel momento in cui veniva persuaso da Donald Trump – ma soprattutto dall’emergenza economica in casa – ad acconsentire a tagliare la produzione russa del 10%. Ma più probabilmente, la bugia come strumento di governo diventa più pervasiva e onnipresente del virus, e distinguere la verità dalla menzogna diventa sempre più difficile.
Il risultato di questa operazione di Putin è davvero brillante: la sua bugia ha fatto infuriare i sauditi e il vertice a distanza tra Riad, Mosca e Washington, che il 6 aprile avrebbe dovuto annunciare i tagli alla produzione, è stato rinviato. I trader si preparano a un nuovo crollo dei mercati. Il rublo è ai minimi storici, l’idea di abbassare il prezzo del petrolio nel momento in cui non lo compra nessuno perché tutto il mondo è fermo sta facendo vacillare il bilancio russo, che sta in piedi con un prezzo del barile di 42 dollari.
Inoltre Putin è riuscito a litigare con gli ibn Saud, dopo aver instaurato con loro (tradizionali alleati americani) un legame che veniva visto come uno dei tasselli più importanti della sua strategia mediorientale. Ma, come scrive lo storico americano Hal Brands, «Putin viene considerato un grande giocatore di scacchi, nonostante il suo approccio geopolitico sia spesso miope e potenzialmente controproducente nel lungo termine. In altre parole, il suo stile di governo non è molto diverso da quello del presidente Trump». Che nel frattempo ha colto la palla al balzo per minacciare dazi a protezione dei produttori di greggio americani.
Tutto questo però è una buona notizia. Perché ogni cremlinologo sa che c’è una correlazione diretta tra il prezzo del petrolio e l’autoritarismo in Russia. Da 50 anni, ogni calo del greggio ha corrisposto a un periodo di liberalizzazione, in un Paese la cui economia e struttura sociale continua ad assomigliare a un emirato, per quanto gigantesco e pieno di neve. Putin ha annesso la Crimea nel marzo 2014 a 110 dollari a barile e ha fermato l’offensiva nel Donbass nel febbraio 2015 a 50 dollari a barile. Il 2 aprile scorso, il prezzo del barile del petrolio russo Urals è crollato a 10 dollari, il punto dove si trovava nel marzo 1999, quando il mondo non aveva ancora sentito parlare di Vladimir Putin. Fare il supereroe internazionale sotto i 20 dollari a barile è impossibile.