Così invischiato nella paura di scomparire, essere per poi non essere, e di colpo dissolversi, paura che per gli artisti ha un suono ancora più minaccioso che per gli altri, così sdegnato con il destino comune – e cioè nascere e vivere per poi morire –, Vittorio Gassmann amava il teatro anche perché il teatro è una zona franca della vita e del teatro amava dire: «Lì si è immortali». Sulla scena, al riparo dall’imprevisto, ruota di un ingranaggio che si ripete identico ogni sera ma ogni sera – magia! – è diverso, l’attore è davvero immortale. E, se memorabile, – di qui il successo, di là il fallimento da inettitudine: presupposto che reca con sé un profondo senso di giustizia – sarà immortale anche lo spettacolo. Sembra una beffa. Ciò che è immortale dovrebbe essere il contrario di ciò che è precario e invece, nel descrivere il mondo del teatro, non c’è aggettivo più ficcante di questo. Precario.
Nel mondo di prima, in bilico fra pochi affezionati al rito di un tempo lento – uscire di casa, trovare parcheggio, sedersi al buio in quello spazio di libertà che è il teatro, assistere al gioco di chi è immortale –, e dall’altra parte, i molti a cui stancava solo l’idea (a ragione se, dopo tutta la fatica, si trattava di assistere a certi spettacoli dove il dramma si consuma più che sulla scena in platea), il teatro era già precario. Nel mondo di adesso, coi teatri chiusi fino a chissà quando, è in uno stato di salute di alta gravità.
In un articolo apparso ieri sul Corriere della Sera, Emilia Costantini ha dato voce all’appello promosso dal regista Pietro Maccarinelli, affinché l’Amministratore delegato della tv pubblica, Salini, trasmetta sui canali tematici o, meglio, sulle reti generaliste, le riprese già realizzate dalla Rai di spettacoli teatrali. Il regista Luca De Fusco si è spinto oltre e ha proposto alla Rai la produzione di spettacoli teatrali creati per il mezzo. Ha detto: «Si sfamerebbero attori, registi, maestranze e chi ha fame di teatro, un pubblico non trascurabile». Ora, se sia un pubblico non trascurabile, non ne sono sicura. Piuttosto è vero che, anche questo pubblico, ha diritto a essere non trascurato. Soprattutto: è compito del governo assicurarsi che il settore teatro sopravviva.
C’è da dire, particolare di certo noto a tutti i firmatari, che la Rai è già impegnata nella promozione del teatro; su Rai 5 si possono recuperare in streaming moltissimi video e foto e podcast di spettacoli che hanno fatto la storia del nostro teatro e di messe in scena contemporanee. Viene il dubbio che, oltre a un sostegno finanziario al settore, si è in cerca di maggiore visibilità. Una richiesta legittima, intendiamoci. E però.
Data l’età media dei firmatari, quasi tutti dei colossi, noti nell’ambiente come i Signori delle scene (se ideassero uno spin off di “Boris”, il dietro le quinte del teatro, Pannofino, nei panni del produttore, di sicuro direbbe: ok per la Signora del teatro, ma poi mi ci metti tutti giovani al minimo, che non c’ho una lira…); data l’età dei firmatari, dicevo, viene da chiedersi: dove sono finiti i registi della nuova generazione? Sapevano dell’appello?
È inutile girarci intorno: nel teatro italiano c’è un enorme problema di accesso alla professione. Si badi bene, nessuno vuole farne una guerra tra generazioni, figuriamoci, io a lady Vukotic, lady Guarnieri, Danieli, Lanciotti, Bonaiuto, Pedrazzi, Paiato, affiderei tutte le task force che saremmo in grado di istituire da qui alla fase 10. Memorabili messe in scena come il “Gabbiano” di Cechov, diretto nel 1969 da Costa, con Gabriele Lavia e Anna Proclemer, somigliano all’azzurro limpido di certe giornate, sono ossigeno e fulgore, e nessuno qui intende asserire che il dopo sia di per sé meglio del prima. E però.
Dopo non essere stati capaci di creare una classe di giovani drammaturghi, a differenza di quanto accade in Inghilterra (dove il pubblico va a vedere l’ultimo spettacolo di – aggiungere: nome di giovane drammaturgo –, e non, come capita qui, l’ultimo spettacolo di – aggiungere: nome di navigata attrice Rai), o in Francia, in Spagna, Germania, nei Paesi del Nord; dopo aver dato accesso al percorso formativo, quello accademico e istituzionale, e quindi al riparo dalla sempiterna cialtroneria, solo attraverso bandi e provini, operando una selezione all’ingresso per consegnare in seguito più opportunità; dopo che persino il legislatore si è prodigato per mettere nero su bianco l’esigenza di produrre, distribuire e investire su opere contemporanee e su giovani artisti.
Mentre, nel resto del mondo, il teatro ha cura dei classici ma, allo stesso tempo, affonda la propria lama dentro la trama ancora incerta dei nostri tempi e mette in scena: terrorismo, crisi finanziaria, Brexit, Trump, #Metoo, (nell’ultima sua pièce, a processo ancora in corso, David Mamet, non certo un novellino, ha dato voce all’uomo più discusso del mondo, Harvey Weinstein, interpretato da John Malkovich, e non importa che sia stato un flop perché non è questo il punto); considerate tutte le difficoltà pregresse, nell’ora più buia del teatro, qui in Italia cosa succede? Che si faccia un appello per evitare il baratro della disoccupazione e che a chiudere la nota sia un attore di 81 anni.
Ora, per eccesso di difesa, ricordo che Eros Pagni è uno dei più bravi e, per fugare dubbi di razzismo contro la categoria, confesso che nel mio orizzonte erotico si aggira un suo illustre coetaneo, Roberto Herlitzka.
Il punto è un altro, anche se è sempre lo stesso. Solo chi se lo merita, questo è certo, e sperando che siano affamati di sperimentazione e di creatività. Ma: vogliamo per favore, finalmente, fare spazio ai giovani!