8 maggioCome la Germania (non) festeggia la fine della Seconda guerra mondiale

Tutta Europa celebra la (seconda) firma della resa di Berlino nel quartier generale sovietico. Da quel giorno i tedeschi furono salvati e annientati al tempo stesso, imparando solo dopo molto tempo a convivere con il senso di colpa di quanto fatto dal nazismo

Afp

Alle 2 di notte del 7 maggio 1945, all’interno di un edificio in mattoni rossi nella cittadina di Reims, nel nord della Francia, la Germania firma la sua resa. L’edificio originariamente sarebbe una scuola, il College Moderne et Technique, ma da febbraio funge da quartier generale del comando supremo delle forze alleate in Europa, su ordine del generale Eisenhower.

Al tavolo delle trattative, per i tedeschi, siedono il Generaloberst Alfred Jodl, capo di stato maggiore del neonato governo Dönitz, il suo aiutante Wilhelm Oxenius e l’ammiraglio Hans-Georg von Friedeburg, capo della marina militare.

Il termine “trattative” è un eufemismo: si parla di resa totale e incondizionata, per di più su tutti i fronti, compreso quello orientale. Dönitz preferirebbe una pace separata, senza mettere in mezzo i sovietici, per ora, ma Eisenhower è irremovibile – e i tedeschi certo non possono negoziare nulla. Intorno alle 2 e 40 Jodl firma: le ostilità cesseranno a partire dalle 23:01 del giorno successivo, l’8 maggio.

Un’ulteriore firma, con i sovietici, sarà effettivamente necessaria: il generale Ivan Susloparov, presente a Reims, non era stato autorizzato a sottoscrivere nulla, e perdipiù da Mosca si lamenta il fatto che il testo dell’accordo è diverso da quanto originariamente concordato.

Ad esempio, non viene esplicitamente specificato che le truppe tedesche devono deporre le armi e consegnarsi come prigionieri alle forze alleate. In realtà è probabile che le ragioni siano più che altro simboliche: serve un atto solenne che certifichi il crollo della Germania nazista, e serve che abbia luogo proprio là dove tutto è cominciato, a Berlino.

Con la benedizione di Eisenhower, viene organizzata per l’8 maggio una cerimonia più formale nel quartier generale sovietico a Berlino, dove alla presenza del maresciallo Georgy Zhukov il feldmaresciallo Wilhelm Keitel firma la versione definitiva della capitolazione. La Germania si è arresa, la guerra è finita.

È però l’inizio di un’altra storia, naturalmente meno tragica e sanguinosa, ma rivelatrice di quanto profonda sia la cicatrice lasciata dal nazismo e dalla guerra, di quanto enorme sia il buco nero generato da quegli anni bui.

Nei primi anni del dopoguerra, infatti, il ricordo dell’8 maggio è tutt’altro che affettuoso: è anzi una data che si cerca in qualche modo di dimenticare, a cui dedicare scarsa attenzione, perché porta alla mente ricordi terribili e ancora troppo freschi. Ricordi che non hanno a che fare solo con gli eventi bellici, ma anche con quanto ne è seguito: un paese ridotto in macerie, per di più diviso, in qualche modo a sovranità limitata.

È solo agli inizi degli anni Settanta che il dibattito sulla ricorrenza inizia a farsi più acceso: il governo rosso-giallo (Partito socialdemocratico tedesco + Partito liberale, l’Fdp) guidato da Willy Brandt si propone di affrontare finalmente il tema, ma la reazione dei conservatori all’opposizione è nettissima, e riassumibile in un fortunato slogan: «Niederlagen feiert man nicht», le sconfitte non si festeggiano. Non aiuta il fatto che i cugini dell’Est celebrino invece l’anniversario in pompa magna: nella DDR l’8 maggio, dal 1950 al 1967, è festa nazionale.

Bisogna però aspettare gli anni Ottanta perché la discussione maturi ulteriormente: il momento di svolta va cercato nel discorso tenuto nel 1985, in occasione del quarantesimo anniversario, dall’allora Presidente della Repubblica Federale, Richard von Weizsächer.

L’8 maggio è finalmente descritto come Tag der Befreiung, il “giorno della liberazione” dalla tirannia del nazionalsocialismo e dagli orrori della guerra che ne sono stati causati. Wiezsächer in realtà non è il primo a usare questa espressione, nello stesso anno l’aveva già usata Helmut Kohl, in due diverse occasioni: è però la prima volta che la formula viene usata in maniera così forte e autorevole, da un capo di stato tedesco.

È in qualche modo la certificazione di un cambiamento di prospettiva ufficiale, teso a chiarire e a stabilire il ricordo non solo di quella data ma di tutto il periodo precedente e successivo: un atto di vera e propria “politica della memoria”, se vogliamo, parte integrante del lunghissimo processo con cui la Germania fa i conti con il suo recente passato – che in tedesco ha addirittura un nome ben preciso: Vergangenheitsbewältigung, traducibile come «rielaborazione del passato».

Un processo inevitabilmente senza fine, ancora in corso, costellato di momenti complessi e ricchi di ambiguità, in cui storia e ricordo si intrecciano senza per definizione riuscire a trovare una ricomposizione armoniosa.

Continua a leggere su Kater,un blog collettivo che parla di Germania – o almeno ci prova – al di là di semplificazioni, stereotipi e luoghi comuni. Perché la Germania è grande e complessa, e insieme proviamo a capirla e a spiegarla.

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