Stranger ThingsChe cos’è rimasto di questi anni Ottanta (a parte le penne vodka e salmone)?

Ai tempi, in pochi si lamentavano della pasta con gli alcolici, un mix (letale) che diede vita a creature mitologiche come il risotto alle fragole e champagne. Ma oggi li stiamo rimpiangendo?

Margot Robbie e Leonardo DiCaprio in una scena di THE WOLF OF WALL STREET

Se lo domandava Raf al futuro, e ce lo domandiamo pure noi, col senno di poi, consapevoli che – lato moda, lato cinema, lato serie tv, lato musica – gli anni Ottanta e Novanta sono tornati in grande spolvero. I Levi’s 501, gli scrunchy, le spalline, Stranger Things, le Stan Smith, I Guardiani della Galassia, il bomber di Liberato, il nuovo album degli Strokes: una lista che potrebbe allungarsi a dismisura e prendere anche le prossime righe, nel tentativo (forse), di eludere uno degli aspetti di quegli anni che oggi ci sembra più deludente, l’aspetto gastronomico.

Che poi, perché mai? Per un presunto snobismo? Eppure ai tempi pochi si lamentavano della pasta con gli alcolici, un mix (letale) che diede vita a creature mitologiche come le penne con vodka e salmone o il risotto alle fragole e champagne. Probabilmente eravamo troppo piccoli e la nostra cultura culinaria doveva ancora formarsi, altrimenti credo che tutti avremmo desiderato conoscere il motivo, indagare le ragioni recondite per cui l’utilizzo della vodka o lo spreco dello champagne risultassero delle buone idee, talmente buone da comparire nel menu di ogni sacrosanto ristorante che si rispettasse.

Erano i piatti-simbolo dello yuppismo, i piatti che avrebbe potuto benissimo mangiare Patrick Bateman in una delle pagine di American Psycho, accompagnati da appetitoso aspic di pollo, invitanti tartine al caviale (caviale vero, mica delle banalissime uova di lompo) o colorati cocktail di gamberi dove la percentuale di salsa rosa superava di gran lunga la percentuale di gamberi. Salse, salsine e gelatine potevano essere considerate una specie di cavallo di battaglia sempre vincente o quantomeno piazzato, al punto che immaginare una cena che non le prevedesse risultava quasi impossibile. L’apice, però, non veniva toccato con gli eleganti bicchieri di vetro in cui affogavano incolpevoli pochi gamberetti in un mare di salsa rosa, bensì nel famigerato filetto al pepe verde e nel cugino di primo grado alla Woronoff. L’interrogativo che ci ha attanagliati per anni era sì semplice, ma in un certo senso di matrice esistenziale: la carne c’era veramente? O forse la bocca era talmente anestetizzata e piena di salsa che il filetto avrebbe potuto tranquillamente essere seitan? E soprattutto, di cosa sapeva veramente la salsa al pepe verde? Come mai ricordava tutto, tranne il gusto del pepe verde?

Dubbi amletici insomma, destinati a rimanere irrisolti e a perdersi come lacrime nella pioggia: purtroppo (o per fortuna), penne alla vodka, risotti allo champagne, filetti annegati in intingoli d’indefinibile provenienza e compagnia bella sono ormai scomparsi dai nostri radar gastrofighetti e sopravvivono soltanto in qualche squallido ristorante finto-pretenzioso di provincia. Qualcun altro, però, è riuscito a sopravvivere, e contro qualsiasi previsione si manifesta a mo’ di divinità ultraterrena nei banchi di alcune gastronomie o sulle carte di ristoranti dall’anima prepotentemente retrò.

Direttamente dal Nord America (molti dicono Canada, vai a sapere chi ha ragione) il mix surf and turf – o mare e monti che dir si voglia – conta ancora parecchi affezionati che impazziscono davanti a un bel piattone con astice o aragosta e filet mignon. Ci vuole un fisico bestiale, ma pure un apparato digerente a prova di bomba per mandare giù la tipica combo della cucina middle class continentale, che simboleggiava il benessere del boom economico degli anni Sessanta e che è arrivata indisturbata sulle nostre tavole a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, grazie anche a chef del calibro di Thomas Keller.

Da allora non se n’è più andata, e sebbene sia meno blasonata rispetto a inizio/metà Duemila, non è caduta nel più profondo dimenticatoio: stessa sorte pure per l’intramontabile insalata di riso (che se fatta bene un senso ce l’ha, ma se fatta male… beh, è il male) e per la triste bresaola con rucola e grana, ospitale rifugio per coloro che sono sempre a dieta da almeno quarant’anni. Doveroso citare pure la paella, che fece il suo ingresso nei menu nostrani intorno agli anni ’90 come uno dei primi ‘cibi stranieri’ oltre al già conosciuto cinese: va prenotata con un giorno d’anticipo un po’ ovunque ma resiste, col suo riso sempre vagamente scotto e il fraintendimento alla base – l’originale valenciana vuole carne e frutti di mare insieme (e qui torna il surf and turf), la variante con soli frutti di mare è, appunto, una variante diffusasi sulle coste mediterranee e all’estero.

Non è però il momento di sottilizzare: accanto a simili evergreen, che – almeno nei locali veraci e senza puzza sotto il naso – si difendono stoicamente, bisogna osservare un minuto di raccoglimento per il profiterole e per lo yogurt gelato. Il primo è stato un’istituzione, un monumento, un pilastro dei dessert anni Ottanta e Novanta: la qualità si distingueva dal colore della cioccolata (se troppo chiaro urlava ‘confezionato’ ai quattro venti) e dalla consistenza dei bignè (idem, se ricordava una gomma da masticare), ma nonostante ciò si finiva comunque per ordinarlo, stomacati dal pastone dolciastro che veniva puntualmente a crearsi in bocca dopo giusto un paio di cucchiaiate.

Il secondo, in abbinamento a granella di nocciole, riccioli di cioccolato, cereali e Smarties diede filo da torcere al gelato vero negli anni Novanta: le yogurterie spuntavano come funghi, e ci fu un periodo durante il quale la gente pensava sul serio che lo yogurt gelato fosse più sano di una normale coppetta acquistata in gelateria. Il ragionamento alla base era pure plausibile, ma poi s’inciampava sui topping: ci s’inciampa tuttora, nelle poche yogurterie sopravvissute, da cui puntualmente esce gente che tiene in precario equilibrio complesse opere architettoniche composte da yogurt gelato e guarnizioni varie.

Un vecchio adagio d’altronde recita che la panna è stata per gli anni Ottanta quello che lo yogurt è stato per gli anni Novanta, riassumendo alla perfezione la dicotomia tra i due decenni: opulenza versus sobrietà, con l’aggiunta di topping su quest’ultima affinché risultasse meno acida e indigesta. Oggi sceglieremmo un gelato artigianale senza esitazione e forse, a ben vedere, è andata bene così.

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