Tralasciando l’abituale gergo eurocratese e le dichiarazioni di principio, sono tre i punti salienti della dichiarazione di Zagabria, il documento programmatico partorito dal summit tra il Consiglio europeo, e i leader dei Balcani occidentali: Serbia, Albania, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord e Kosovo.
Primo, il termine “allargamento” resta tabù. Come da un paio d’anni a questa parte, si riafferma una generica «prospettiva europea» per i Balcani occidentali, formulazione che rende ancora più vaghe le promesse dei 27. In previsione del summit, parafrasando Marshall MacLuhan, il premier croato Andrej Plenković aveva perfino affermato che «il meeting è il messaggio», quasi a suggerire che già il fatto di continuare a (non) parlar di allargamento in un frangente delicato come questo sia una notizia in sé.
Si conferma l’impressione dominante che attualmente l’integrazione di nuovi membri non sia una delle priorità per Bruxelles, bensì un’ulteriore fonte di possibile conflittualità tra gli Stati. Le dichiarazioni ufficiali dell’Ue allora adottano un tono generico, evitando termini troppo connotati, come «allargamento», «integrazione» o «adesione».
Secondo, il summit approva l’aiuto varato dalla Commissione europea a fine aprile: l’Ue offre ai sei Stati dei Balcani occidentali un pacchetto da 3.3 miliardi di euro, fondi che serviranno a sostenere il sistema ospedaliero, soprattutto tramite l’invio di materiale sanitario ad hoc, e a contenere le ricadute della pandemia sul tessuto economico e sociale.
Le stime del Fondo monetario internazionale prevedono un calo drastico del Prodotto interno lordo in tutti gli Stati, cui dovrebbe seguire una netta ripresa nel 2021: per la Serbia -3 per cento, per la Macedonia del Nord -4 per cento, -5 per cento per Bosnia, Kosovo e Albania e -9 per cento per il Montenegro.
L’Ue, di gran lunga l’attore più rilevante sul piano economico-finanziario nella regione, è vitale per calmierare gli effetti di questa recessione. Ma, come dimostrato anche dalla presente emergenza, i soldi non fanno soft power.
Il terzo punto, il più importante, riguarda proprio questo aspetto. Pur senza menzionare rivali specifici, il documento enuncia senza mezzi termini che: «il fatto che [il sostegno dell’Ue] sia stato di gran lunga superiore a quello che qualunque altro attore ha prestato alla regione merita di essere riconosciuto pubblicamente». Un’affermazione da cui traspare sia una decisa presa di consapevolezza (l’Ue non è in grado di trasformare i propri soldi in capitale politico nei Balcani) che una conseguente insicurezza, da colmare con affermazioni perentorie.
A conferma di ciò la stessa istanza viene reiterata anche più avanti, quando il documento richiama all’ordine i sei Stati candidati, ricordando che: «l’Ue si aspetta un maggiore approfondimento della cooperazione nell’ambito della Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) e rinnova l’invito ai suoi partner ad allinearsi con le posizioni di politica estera dell’Ue, specialmente su temi dove sono in gioco interessi comuni, e ad agire nel solco di tali posizioni».
Una stoccata nemmeno troppo velata alle interferenze cui si sono aperti, con gradi diversi, tutti e sei gli Stati dell’area. La pandemia ha infatti spalancato le porte della penisola balcanica ai concorrenti dell’Ue, accorsi in soccorso come veneratissimi deus ex machina.
Se la capofila è stata sicuramente la Cina, scatenatasi nella cosiddetta “diplomazia delle mascherine”, sono state parecchie le potenze che hanno trasformato l’emergenza Covid19 in una campagna pubblicitaria a basso costo, dalla Russia alla Turchia, intervenute a supporto dei propri tradizionali clienti balcanici.
Di questo intreccio di interessi divergenti la Serbia è stata l’emblema principale, una linea ribadita dal presidente Aleksandar Vučić anche durante il meeting di ieri. Secondo alcuni osservatori, queste vistose ingerenze potrebbero per paradosso aver dato la scossa alle cancellerie europee, suggerendo un coinvolgimento più deciso nei Balcani occidentali, al fine di contrastare le mire egemoniche degli attori rivali.
Infine, i riferimenti generici a democrazia e Stato di diritto contenuti nella dichiarazione di Zagabria, cifra stilistica dei documenti Ue dedicati alla regione, suonano quasi parodistici nel momento attuale. Come dettagliato in un dossier Ispi, il virus ha minato ulteriormente le fondamenta delle fragili democrazie balcaniche.
L’ultimo report di Freedom House, uscito pochi giorni fa, qualifica non solo due Stati candidati (Serbia e Montenegro), ma addirittura uno Stato membro (l’Ungheria) come «regimi ibridi» e non più «democrazie semi-consolidate». Proprio la discesa di Budapest nell’autocrazia ha ricadute sistemiche sui Balcani occidentali.
Il premier ungherese Viktor Orbán, agendo come una sorta di patrono dell’illiberalismo, è un modello per gli uomini forti della penisola. L’atto più eclatante fu il diritto d’asilo garantito a fine 2018 da Budapest all’ex premier macedone Nikola Gruevski, fuggito rocambolescamente dal paese natio dopo esser stato condannato per corruzione.
L’appuntamento di Zagabria è stato il climax della presidenza croata del Consiglio europeo. Uno dei pochi risultati effettivi di questo semestre è stato il lancio di una revisione del processo di allargamento in risposta allo scetticismo di alcuni membri, Francia in testa, verso l’utilità di accogliere nuovi membri nel club comunitario.
Ci si avvia ora verso il passaggio di testimone a un membro su cui gravano aspettative ben più ingombranti di quelle che hanno caratterizzato la presidenza dell’ultimo Stato entrato in casa Ue (2013).
Il 1 luglio inizia la presidenza tedesca, sei mesi da cui si attendono risposte decisive su molti temi caldi. Poiché Berlino ne è sempre stata la più convinta fautrice, uno di questi temi è proprio il futuro del processo di allargamento. O meglio, della «prospettiva europea dei Balcani occidentali».