Le dimissioni del capo di gabinetto di Alfonso Bonafede, il magistrato Fulvio Baldi, sono l’ennesima e (forse?) definitiva mazzata per il ministro della Giustizia. Gli viene meno l’uomo a “un battito dal suo cuore”, quello con cui ha condiviso la gestione dell’apparato burocratico e dei progetti legislativi, fino alla vicenda Di Matteo. Il tutto con un’inaspettata abilità politica dell’ex dj di Mazara del Vallo, anche se con poco discernimento giuridico.
Rischia di costare caro al ministro il compromesso raggiunto con la magistratura un anno fa, quando sulla scia delle mefitiche intercettazioni del caso Palamara veniva alla luce l’incredibile scenario di accordi sottobanco tra politica e sindacato delle toghe per le nomine al Consiglio superiore della magistratura e agli incarichi direttivi degli uffici giudiziari.
Un complesso intreccio che ha suscitato non certo stupore ma indignazione e qualche non oziosa domanda sull’enorme potere concentrato nelle mani di un pur abile, esperto e stimato magistrato come Palamara, il cui profilo professionale però certo non raggiungeva l’alto prestigio di altri suoi colleghi impegnati in inchieste di primissima fila o delicati incarichi apicali.
Bonafede, a sorpresa, non ha approfittato del momento favorevole per portare a compimento il suo progetto di riforma dell’elezione all’organismo di autogoverno. Egli meditava di ricorrere al sorteggio, cosa che vedendo quanto sta uscendo dall’inchiesta di Perugia su Luca Palamara appare sicuramente preferibile alle pratiche da basso impero in uso e accettate, senza distinzione di sorta, da gran parte della corporazione.
Un metodo che avvilisce il merito di chi senza protezioni non può aspirare a far carriera. Il tutto condito senza remora e sovente da un linguaggio greve da commedia vanziniana.
Invece questa è stata l’unica delle riforme cui Bonafede ha rinunciato, cosa che gli è valso un tributo di riconoscenza, con standing ovation all’ultimo congresso nazionale dell’Associazione Magistrati.
Un accordo su cui probabilmente non sono stati estranei i molto ascoltati consiglieri ministeriali. Come è peraltro possibile che sia accaduto per la scelta del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), la “miccia” che ha fatto esplodere il caso Di Matteo, il quale sicuramente per primo sa che c’entrano ben poco le proteste mafiose e molto le simpatie dei colleghi, forse anche dei meno sospettabili.
La recente freddezza tra Di Matteo e Piercamillo Davigo, capo della corrente Autonomia ed Indipendenza, indica inaspettate tensioni anche tra i “rinnovatori etici” della Magistratura. Un anno fa sembrava tutto risolto in un generale lavacro con qualche lieve ma non eccessivo pentimento.
Infatti per le nomine successive, tra cui l’ambito incarico alla Procura di Roma, la prassi, tra qualche rinvio e i via libera per gli incarichi collegati, è sembrata non così dissimile dalle precedenti, anche senza l’onnipresente e potente Palamara.
La chiusura delle indagini a Perugia però ha interrotto la pax ministeriale. La stampa ha cominciato a pubblicare altre intercettazioni, in realtà non pubblicabili a norma di legge, ma la cui sanzione è risibile tanto che di essa non hanno mai tenuto conto.
Nonostante le proteste degli indagati, da Silvio Berlusconi alle ministre Annamaria Cancellieri e Federica Guidi per ricordarne qualcuna, la magistratura non ha mai mosso paglia. Certo oggi suona come una beffarda legge di contrappasso che la vittima non sia più qualche politico screditato ma il potere giudiziario nel suo complesso.
Questa ulteriore tegola giunge in un momento particolarmente disastroso per la giustizia flagellata oltre che dagli errori del ministro e dei suoi collaboratori anche dall’emergenza Covid.
Come nei precedenti decreti legge, il diavolo si nasconde anche nei dettagli dell’ultimo, i quali fanno intuire al paziente lettore delle centinaia di pagine e di commi il segreto pensiero di questo governo sul ritorno alla normalità.
Cosi il Decreto legge “Ripresa”, all’articolo 16, stabilisce che «i termini di scadenza degli stati di emergenza dichiarati ai sensi dell’articolo 24, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1…in scadenza entro il 31 luglio 2020 e non più prorogabili ai sensi della normativa vigente, sono prorogati per ulteriori sei mesi».
Cos’è l’articolo. 24 del Decreto legge 1/2018? La legge di riordino del Servizio Nazionale della Protezione Civile che richiama gli eventi per i quali il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio, delibera lo stato d’emergenza di rilievo nazionale. Così, a occhio, tra essi sicuramente dovrebbe rientrare una pandemia a livello mondiale.
Fonti accreditate hanno fatto sapere che la norma riguarderebbe altre contingenze (come ad esempio il commissario di protezione civile per l’inquinamento delle acque da PFAS in Veneto) e che non sarebbero altrimenti prorogabili.
Tuttavia colpisce che la data da cui decorre la proroga sia quella prevista per la fine della Fase 2 nei tribunali (il 31 Luglio), inserita all’ultimo momento nel precedente Decreto legge Liquidità e non quella delle altre emergenze. Una fase emergenziale prorogata in corso d’opera ben tre volte e che appare chiaro che durerà ancora.
La situazione nei Tribunali è a dir poco esplosiva e insopportabile: da fine febbraio gran parte degli uffici e delle aule sono chiuse, solo da pochi giorni sono tornati a celebrarsi pochissimi processi mentre sale a livelli ancora più intollerabili il pesantissimo arretrato che prima del lockdown era arrivato ad oltre un milione e mezzo di processi per il solo ufficio monocratico del Tribunale, secondo stime ufficiali del Ministero (le cause considerate meno importanti ma che investono la vita quotidiana delle persone normali).
Magistrati e avvocati si rinfacciano reciprocamente le colpe relative all’introduzione del cosiddetto processo da remoto, quello svolto via computer. I primi lo vorrebbero a tutti i costi, mentre i secondi gridano al complotto temendo che li si voglia eliminare dalle aule. Il che peraltro sta già avvenendo.
In realtà è ancora un’impresa avere le copie di un processo in digitale. E lo smart working del personale non è operativo perché non esiste un programma affidabile che consenta il collegamento alla rete nazionale informatica della giustizia degli addetti ai lavori da casa o dagli studi legali. Solo ora, in queste disperate condizioni, si è ammesso l’uso legale della posta certificata e della firma digitale.
Nonostante ciò in un’intervista alla rivista “Giustizia Insieme” il dirigente del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, il magistrato Laura Fabbrini, ha dichiarato che il ministero della Giustizia è «in realtà è uno dei settori della pubblica amministrazione tra i più digitalizzati; fatto questo da anni riconosciuto anche in sede internazionale».
Nonostante i proclami, tra i motivi che tengono gli investitori lontani dall’Italia c’è lo stato di lentezza inaccettabile della giustizia e si può ben capire che la chiusura dei Tribunali in termini di Prodotto interno lordo è grave quanto quella delle fabbriche.
La vicenda Baldi può forse costituire un’opportunità per un atto di radicale riforma che Bonafede, ma forse è meglio dire chi lo sostituirà, potrebbe fare: mandare nelle aule le centinaia di magistrati collocati in uffici direttivi e amministrativi esulanti dalle loro competenze e capacità professionali, assumere manager o esperti in administration, possibilmente capaci di reperire computer e banda larga con più efficacia di quanto ne abbia dimostrato il commissario Domenico Arcuri con le mascherine.
Il Guardasigilli dovrà convocare le parti sociali per invitarle a un’assunzione di responsabilità e per concordare un piano serio di rientro dall’arretrato, assumendo temporaneamente anche giovani avvocati disarcionati dalla crisi e chiedendo sacrifici e rinunce a entrambi riguardo alle ore di lavoro e all’accettazione della tecnologia. Ma dovrà farlo presto.