ProspettiveFotografare il cibo della quarantena

Nuovi approcci e scenari dei professionisti della fotografia che, anche in lockdown, non hanno mai smesso di scattare e di tenere l'occhio allenato sul cibo e le sue nuove identità

Una foto di Giandomenico Frassi

Per il mondo enogastronomico il post coronavirus potrebbe rivelarsi un po’ quello che, per chi ne ha memoria, è stato dopo l’11 settembre. Correva l’anno 2001: da quella data le vite di tutti sono cambiate e diverse persone hanno rinunciato per molto tempo ad andare in vacanza, a spostarsi per ricongiungersi con i familiari o a viaggi di lavoro perché avevano paura di volare. La parola paura paradossalmente è una parola bellissima, deriva dal latino pavēre e significa percuotere. Da ciò che viene percosso proviene l’etimo di pavimento e anch’esso sussulta tutte le volte che ci tremano le gambe. La paura genera anche il momento delle domande e bisogna benedirla perché ci dà una svegliata riportandoci sulla via della libertà. Una libertà comprensibile, a volte, solo a un linguaggio universale e, sopra ogni cosa, più dell’inglese, è la fotografia a parlare a tutto il mondo in maniera così immediata.

Ed è proprio la cucina a essere uno storytelling dove le immagini hanno un peso preponderante rispetto alle parole. Lo possiamo verificare con il boom di Instagram, veicolo visivo per eccellenza su cui in questi mesi sono state utilizzate spesso immagini di repertorio non potendo rimpinzare l’archivio. La fotografia appare quindi più schietta, più sincera ma «è presto per (ri)definirla ai tempi del coronavirus». A riflettere a voce alta su questo è Lido Vannucchi, fotografo specializzato nell’ambito enogastronomico praticamente da sempre, critico che ha lavorato per 12 anni nelle Guide di settore, ma anche cuoco, sommelier e proprietario di una piccola cantina dove fa vino. Insomma, un personaggio a tutto tondo che ha molto da donare al prossimo. «In questi mesi non ho mai smesso di fotografare, anche a casa. Ho notato che lo sto facendo in una maniera diversa dal solito, con una luce più cruda perché c’è bisogno di coraggio e di verità. Un po’ come nella fotografia del dopoguerra, ecco, forse la fotografia di reportage sarà la chiave». Lui da circa 7 anni ha stabilmente avviato una sua agenzia di comunicazione. Tra i clienti chef stellati, grandi ristoratori, eroici vignaioli, aziende agroalimentari, territori e consorzi: un portfolio con 60 realtà che ruotano e 30 collaborazioni fisse. «I nostri contratti sono stati sempre aperti, non abbiamo blindato nessuno e probabilmente il nostro modus operandi ha permesso di non farci perdere neanche uno di loro. Anzi, ne sono entrati altri». Se per Lido nel primo tempo di lockdown la comunicazione è saltata, «ad esempio non si sapeva se fare delivery e come farlo», è grazie a una cura maniacale e a confronti o scontri bonari che è stato possibile cucire addosso a ciascuno un prodotto che sarebbe servito per la sopravvivenza. Un lavoro sartoriale fatto su consulenza telefonica: «mi sono ritrovato a guidare i miei clienti in set fotografici casalinghi mentre si cercavano gli angoli più giusti della casa; erano loro a mandarmi gli scatti tramite WeTransfer. La potenza della post-produzione e di tanta pazienza hanno restituito a quelle foto una sensazione di grazia. Alla fine i tanti anni di docenza in fotografia mi sono serviti».

Una foto di Lido Vannucchi – Non toglietemi il sangue

Dall’altra parte dell’Oceano c’è la testimonianza di Francesco Tonelli food photographer da 15 anni che scatta principalmente per aziende di cibo commerciale, come Kraft, General Mills, Nestlé, è contributor per diversi libri di cucina, freelance per ristoranti come Jean-Georges ed Eleven Madison Park ed editoriali del calibro di Cooking Light, Playboy e The New York Times. Vive e lavora nel proprio studio nel New Jersey e per lui la fotografia è davvero un atto di condivisione: «prima del coronavirus i miei clienti venivano nel mio studio e partecipavano agli scatti. Io e il mio team preparavamo colazione e pranzo, e a mezzogiorno ci sedevamo tutti intorno al tavolo di fronte a un piatto di spaghetti e un bicchiere di vino. Purtroppo, non è più possibile: i miei scatti ora sono seguiti dai miei clienti in videoconferenza». Ad oggi Francesco ha dichiarato di aver ricevuto dal Governo Federale un sussidio di $1.700 (circa 1.560 euro) e, nonostante tutto, egli stesso ammette di sentirsi «molto fortunato grazie al mio livello di indipendenza che mi consente di continuare a produrre lavoro a un livello pressoché identico a quello precedente il coronavirus». Il suo studio somiglia più a un laboratorio: è dotato di magazzino e di refrigerazione, una stanza per la posateria e ben due cucine. «Nella mia precedente carriera sono stato chef e pasticcere per cui posso preparare e allestire io stesso la maggior parte dei cibi che scatto. Ho molta dimestichezza con i programmi per cui spesso mi occupo della post-produzione e del retouching. Sono in grado di offrire un pacchetto completo ai miei clienti anche durante un periodo difficile come questo».

Tornando in Italia, ci sono delle realtà che non fanno capo al singolo ma sono più una community. È il caso dei ragazzi di Zest, collettivo di fotografi professionisti, che avrebbero dovuto essere alla fiera del food di Pitti Taste proprio agli inizi della pandemia e, come questo evento, sono saltate altre trattative. Il loro nome, oltre a rimandare subito alla scorza di un agrume, significa entusiasmo, interesse e passione, «tre aggettivi che riassumono quello che per noi rappresenta il food». Se per alcuni di loro non è cambiato molto, grazie allo smart working da casa o presso lo studio personale, per altri il lockdown ha bloccato tutto come campagne pubblicitarie e shooting nei ristoranti. Durante questi mesi hanno notato quanto le immagini siano state una forma di comunicazione primaria e parlano anche di opportunità. «Chi nel settore del food saprà meglio ripartire lo potrà fare anche grazie a una efficace comunicazione visiva. Il domani può rappresentare una grande opportunità per noi fotografi di cibo professionisti». È arduo fare previsioni sul lungo periodo e disegnare nuovi scenari nella fotografia e, «oltre a quelli più scontati e una contrazione della domanda in alcuni settori, sicuramente bisognerà rimanere flessibili e sapersi adattare».

Uno scatto di Alessandra Desole di Zest

Fa base a Roma Andrea Di Lorenzo, fotografo che ha mosso i suoi primi passi nel mondo cinematografico per poi approdare al settore enogastronomico instaurando collaborazioni internazionali non sono a carattere food & wine ma anche nel mondo dell’hospitality e del travel. «Al momento è tutto rimandato, stiamo cercando a tutti costi una prospettiva, specialmente in vista dell’estate». Lui lavora in solitaria e vive un po’ “la solitudine del maratoneta” per usare un prestito di un film della new wave inglese: si è ritrovato da solo a riflettere sui cambiamenti che il blocco ha imposto, continuando a sviluppare un rapporto di scambio e di prossimità con il cliente e di confronto con altri colleghi. Grazie al codice ATECO è riuscito a lavorare già da metà aprile (munito di guanti e mascherina) con i ristoranti romani che avevano bisogno di un servizio fotografico per valorizzare le consegne a domicilio ma «vedere Roma deserta di 25 aprile ha avuto un effetto distopico: la periferia e il centro sembravano un tutt’uno». La quarantena per Andrea potrebbe essere immortalata sul divano do casa in attesa di uno dei discorsi di Conte: un evento totalitario perché vissuto da tutti alla stessa maniera, tra paura, speranza, prossimità». Una partecipazione collettiva e all’unisono che ha reso tutti più uguali, tutti più umani, e proprio di umanità si nutriranno i suoi prossimi scatti in cui vorrebbe continuare a narrare aspetti sociali, come il lavoro nei campi.

Un’immagine di Andrea Di Lorenzo

I gesti e le mani sono al centro della narrazione fotografica di Giandomenico Frassi che fa questo mestiere da quando ancora si sviluppava con la pellicola e si usava il banco ottico. Lui, che ringrazia Instagram per averlo liberato da certi vincoli mentali, ricorda il suo primo studio in Corso Venezia 8 a Milano dove oggi c’è una boutique di alta moda: ai tempi produceva anche quattro ricette al giorno per diverse riviste, prima di mettersi in discussione come fotografo e di dedicarsi alla filosofia. «Ho sempre detestato fare foto da stock e gli impiattamenti. Il bello del cibo è raccontare delle storie, cogliere gli attimi degli chef, la ricetta in sé alla fine è irrilevante». Professionista collaudato nel food, nel tempo si è affermato anche nel settore dell’arredamento e della fotografia still life, entrambi mercati attualmente fermi. Se in un primo momento aveva allontanato la ripetitività di quegli scatti, oggi è tornato alle origini grazie alla complicità della moglie Beatrice Prada, autrice de La Cucina Italiana, con cui ha realizzato dei book casalinghi durante la quarantena per suoi articoli sul web. «Quando passavo in ufficio tutti i giorni un piccolo merlo andava a fare il bagno in un sottovaso. Ultimamente non lo vedo più e sono preoccupato. È una roba da pensionati, ma questi mesi mi hanno dato tanto tempo per riflettere, osservare e panificare».

Una foto di Giandomenico Frassi

Se lievito, farina, pizza e pane sono stati gli indiscussi protagonisti di dirette e post social, il saggio Lido Vannucchi ricorderà questi mesi portando davanti agli occhi la foto simbolo della ragazza sfinita che si era addormentata con la testa sulla tastiera del computer. «È stato un po’ come in guerra ma nel nostro caso i nostri soldati sono stati gli infermieri, e di fronte a questo non c’è cibo che tenga».

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