Recentemente ho letto una interessante intervista del presidente dell’Istat che fotografa le famiglie italiane in questa fase di shock pandemico e si prefigura uno scenario demografico di breve termine in cui la paura e le incertezze freneranno ulteriormente la propensione alla genitorialità e la pianificazione delle nascite.
L’Istituto nazionale di statistica infatti stima che nel bilancio demografico dell’anno prossimo, la soglia dei nuovi nati che oggi si attesta sulle 435mila unità, potrebbe scendere ulteriormente sotto le 400mila. Tenendo anche conto che questo numero nelle proiezioni demografiche fatte dall’Istat prima dell’emergenza sanitaria, era indicato come la peggiore delle ipotesi prevista per il 2032.
Dunque, lo shock che stiamo vivendo arriverebbe ad aggravare una tendenza che già era caratterizzata da un continuo e, tolta l’apparente piccola ripresa avvenuta all’inizio del nuovo millennio grazie anche all’aumento delle famiglie straniere, irrefrenabile corsa al ribasso. Una corsa che dal 2013 in avanti ha fatto stabilire a ogni anno il record della più bassa natalità di sempre, mai così minimo in oltre 150 anni.
Stando a questi dati possiamo presupporre che l’effetto pandemia non potrà che esacerbare un trend già molto negativo di un Paese dove da anni fare figli è diventato via via sempre più difficile, dove l’età media delle madri si attesta sui 31,2 anni, dove i tassi di fecondità in età giovanile continuano inesorabilmente a mostrare un sostanziale declino, dove le madri ultraquarantenni sono superiori alle ventenni, dove se non vi fossero le madri straniere avremmo un quinto di bimbi nati in meno.
Tuttavia, solo per fare un esempio piccolo ma lieto e ben augurante, alla clinica Mangiagalli di Milano dall’inizio dell’anno sono nati 146 bambini in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tuttavia, organizzandoci nella difesa da questo imprevedibile virus, abbiamo anche raggiunto la consapevolezza che questa fosse una ulteriore, se non l’ultima, occasione offerta dalla storia all’umanità per effettuare quella rivoluzione culturale, sociale, organizzativa, di pensiero e delle coscienze, la cui necessità era già palese da anni.
Alla luce del micro e del macrodato, ecco allora che la maternità, la genitorialità, dunque le nascite, sono la chiave di volta di una società che vuole avere un futuro. Ma quale futuro avranno i bambini che sono nati in queste settimane? Quali i percorsi formativi? Quali le relazioni con gli altri in questa socialità mutata e modificata dal filtro dei dispositivi di protezione? Con quali occhi guarderanno una società le cui espressioni non verbali oggi passano principalmente attraverso gli sguardi?
Stiamo parlando della C-Generation, quella che nel 2012 era stata in tal modo etichettata perché sarebbe stata una generazione di Connected Consumer, ma che oggi sempre più indica la generazione nata al tempo del Covid-19, cosa che restituisce all’etichetta una connotazione più ampia, profonda e altra, rispetto alla semplice identificazione con uno stile di consumo digitale.
Ecco che è quindi molto interessante per la sua essenzialità notare come, al mutare delle domande che ci stiamo ponendo, cambiano di conseguenza anche le clusterizzazioni. Definire categorie sociali, politiche, economiche e di pensiero è un’attitudine vecchia come l’uomo: bianchi e neri, ricchi e poveri, milanisti e juventini, settentrionali e meridionali… attitudine che troppo a lungo, nel provare a fotografare le generazioni, ci ha spinti a formulare domande nella sola chiave del marketing.
Ancora oggi sono certo che nella maggior parte delle nostre aziende si stanno ancora chiedendo cosa vogliono comprare i Millennial o cosa vogliono consumare gli Z. Ma se già prima della pandemia, Millennials e Generazione Z, che pur sono generazioni ben distinte, avevano come denominatore comune un approccio ai consumi, e alla vita in generale, fortemente stimolato da input ad alto contenuto valoriale dai quali derivavano di conseguenza le loro decisioni, consapevoli che i vecchi modelli di sviluppo sono al minaccia al nostro futuro, oggi, in una nuova dimensione contestuale, valgono ancora quelle stesse domande per capire come sarà la C-Generation? E con quali occhi guarderà il mondo?
Servono nuovi fondamenti quali umanità e responsabilità sociale. Fare del bene e fare profitto non devono più configurarsi come due universi distinti, perché in questa nuova era le aziende dovranno saper fare business condividendo valori universali, più che vendendo prodotti. E mentre ieri un prodotto bastava idearlo, concepirlo, produrlo, distribuirlo, promuoverlo e venderlo al miglior rapporto qualità-prezzo e con la migliore assistenza pre e post vendita, oggi bisogna incarnare un valore.
Per questo servono innovatori consapevoli che sappiano porsi le domande giuste affinché conseguano le risposte giuste. Servono individui capaci di far germogliare il seme del cambiamento in atto e di generare quella gratitudine che farà da bussola nelle nuove relazioni umane. Servono donne e uomini capaci di orientare le nostre azioni verso la costruzione di un prossimo futuro basato sull’innovability, cioè sull’innovazione strettamente connessa alla sostenibilità.