Tra le righeIl libro di gastronomia che dovete leggere. Ora.

È “I conti con l’oste” di Tommaso Melilli (Einaudi): parla di osterie, di cucina e di traiettorie di vita, e lo fa con un approccio personale e letterario

La cover del libro di Tommaso Melilli

Il mondo della scrittura enogastronomica è quanto di più articolato ci possa essere. Dentro c’è un po’ di tutto: il reportage di inchiesta, il pezzo veloce di taglio puramente giornalistico, la ricetta, la critica gastronomica sui ristoranti, la scheda di degustazione sul vino di Tal dei Tali, il vituperato storytelling. Tuttavia c’è anche qualcosa che accomuna approcci così differenti e inevitabilmente distanti, perlomeno in Italia: è la scarsa dignità che viene riconosciuta a questa scrittura come ambito professionale e in quanto espressione fondamentale del nostro bagaglio culturale. Insomma, viviamo nel paese dei Soldati, dei Brera, dei Veronelli, dei Mura, per citare solo alcuni dei padri più nobili, ma dobbiamo fare i conti con tutti coloro, e sono tanti, che ogni giorno ci squadrano dall’alto in basso con sufficienza dicendo «ah, quindi scrivi di cucina?», o «vorrei farlo io il tuo lavoro, passi il tempo a mangiare e bere!». Difficile dire di chi sia la colpa, se degli scrittori stessi, degli editori che ci credono poco, o dei pregiudizi dei lettori. Forse andrebbe distribuita un po’ a tutti. Ma il punto è che oggi, mentre ad esempio il mondo anglosassone pullula di autori gastronomici di fama riconosciuta e pubblicamente rispettati, l’Italia fa più fatica, nonostante qua e là ci siano “penne felici” che meriterebbero diversa fortuna.

In questo contesto che potrebbe apparire desolante è arrivato un libro che travalica le barriere tra gastronomia e resto del mondo, e che proprio attraverso la qualità della scrittura tenta di costruire un percorso diverso per i nostri amati discorsi sul cibo. Si intitola “I conti con l’oste”, e l’ha scritto Tommaso Melilli per Einaudi. In realtà Tommaso ci era già noto per una rubrica ospitata tra il 2015 e il 2016 da Rivista Studio, di nome “Tovagliette”, in cui si occupava di ricettistica in un modo che a noi poteva suonare inusuale, con un tono letterario. Allora, e lo è rimasto fino a ottobre 2018, era un cuoco emigrato in terra francese, circondato di riferimenti gastronomici di profilo internazionale, e ogni ricetta, per capirci, era preceduta da un’introduzione-divagazione su esperienze personali, temi collegati, riflessioni che il piatto stesso scatenava. Fatto sta che quei testi sembravano aria cristallina in un mondo in parte asfittico e piegatosi, perlomeno online, alla ricerca del clic compulsivo.

Oggi la scintilla rintracciabile nelle “Tovagliette” risplende più matura ne “I conti con l’oste”, uscito a febbraio di quest’anno e investito dal maledetto virus e da tutto ciò che questo sta comportando per l’editoria, dal calo di vendite generalizzato alla cancellazione dei tour promozionali. Quest’ultima precisazione è per dirvi di comprare il libro, che per quanto possibile sta andando bene e raccoglie consensi pressoché unanimi, anche perché è una lettura necessaria per chi ha interessi gastronomici (e non solo, ma questo è un altro discorso).

“I conti con l’oste” parla sì di osterie, di mangiare all’italiana, ma lo fa in forma di personal essay. E infatti la lettura è assai scorrevole, grazie a uno stile e a una capacità narrativa davvero felici (e ne abbiamo conferma già a pagina sette, quando raccontando un torneo parigino di calcio tra squadre di ristoranti e cuochi, camerieri, produttori e rivenditori di cibo, la Ligue de Champignons, Tommaso, che ovviamente militava nella compagine degli italiani, scrive: «siamo arrivati in semifinale vincendo tutte le partite uno a zero, applicando i  modo abbastanza inconsapevole la vecchia strategia consistente nel fare una cosa intelligente il prima possibile e passare il resto della partita cercando di non far fare nulla agli avversari». Trapattonesimo puro, e occhi a cuoricino per chi ama in ordine sparso il cibo, Parigi e il calcio). Così come “Tovagliette” era aria cristallina, “I conti con l’oste” rappresenta insomma un passaggio importante per la scrittura gastronomica italiana: non è dato sapere se lascerà un segno indelebile, ma l’impressione è che abbia le carte in regola per farlo.

Quindi la prima cosa da chiedere a Tommaso (ah, questo articolo è anche una specie di intervista) è: quanto è importante per te la qualità della scrittura in ambito gastronomico, e quali sono i modelli a cui ti ispiri, se ce ne sono?

«Se devo essere sincero, per me è importante la qualità della scrittura. Parlo di cucina e di ristoranti perché vengo da quel mondo lì, e quindi un po’ mi sembra di conoscerlo, e ovviamente mi interessa, e mi pare di poter descrivere cose che altri magari non vedrebbero. Il compito della scrittura, anzi – se posso – della letteratura, è per me la de-specializzazione del sapere: si prende un pezzo di mondo, ci si entra dentro, e poi esci e lo spieghi a tutti gli altri, se possibile attraverso una storia. Anthony Bourdain ovviamente ha aperto un mondo, ma per il resto i miei modelli sono scrittori e scrittrici puri: W. G. Sebald, Joan Didion, Leslie Jamison, Emmanuel Carrère, Virginie Despentes. Questo non vuol dire che non legga letteratura gastronomica: è chiaro che prima di dire una cosa ci si informa, per capire se qualcun altro l’ha già detto meglio, e quasi sempre è così.»

Tuttavia “I conti con l’oste” non è un libro importante solo perché introduce un’idea di scrittura gastronomica diversa, di cui rispetto a quanto succede nel resto del mondo eravamo ancora orfani. Infatti il merito principale di Tommaso è quello di aver messo insieme in modo molto efficace forma e sostanza. E quindi insieme al racconto del torneo parigino troviamo una serie di profonde riflessioni sulla cucina italiana, su cos’è l’osteria e il modello che questa rappresenta. Per delineare i contorni di questo quadro articolato e pieno di sfumature Tommaso ha lavorato per qualche giorno, nel corso di una manciata di mesi, con: Giovanni Passerini del Restaurant Passerini a Parigi, Fausto Franco e la famiglia Malinverno de La Crepa di Isola Dovarese, Sarah Cicolini di SantoPalato a Roma, Diego Rossi di Trippa a Milano, Juri Chiotti di Reis a Frassino, Pietro Vergano e Andrea Gherra di Consorzio a Torino, e Paolo Lopriore de Il Portico di Appiano Gentile. E con tutte le squadre che sudano per queste insegne. Insomma, ha vissuto dall’interno la quotidianità delle osterie e dei ristoranti che oggi, in modi a dire il vero anche molto diversi, di più stanno contribuendo a definire la nostra identità gastronomica. E da questa immersione quasi-antropologica Tommaso tira fuori alcune considerazioni importanti, tra cui qui ne riprendiamo una in particolare: quella secondo cui la cucina italiana non sarebbe fatta per essere replicata al ristorante, essendo in fondo una tradizione domestica.

E arriviamo così alla seconda domanda, che in realtà è doppia: ci spieghi cosa intendi quando sottolinei questo aspetto della nostra identità culinaria, e ci aiuti a capire qual è la formula con cui le osterie e i ristoranti che hai incluso nel libro stanno (forse è meglio dire stavano) risolvendo il rebus?

«In casa si cucina “dritto”, senza soluzione di continuità. Quando il piatto è pronto ci si mette a tavola. Al ristorante non è possibile, perché non sai quando arriverà il cliente, e anche quando arriva non sai cosa ordinerà. Questo porta alla divisione del lavoro in cucina in due tempi, fra linea e servizio. In quasi tutte le altre cucine c’è un doppio canone, ci sono delle cose che si cucinano a casa e delle altre che mangi solo al ristorante: nessun giapponese si sognerebbe mai di farsi il sushi a casa. Nella cucina italiana no: l’unico piatto sul quale tutti concordiamo che son più bravi i professionisti è la pizza, sul resto ci sarà sempre qualcuno che dice “lo facevo meglio io”.

Esempio: mettiamo di essere a Roma, e ci vogliamo mangiare in trattoria un bel piatto di rigatoni con la pajata: dei bei rigatoni, grossi, gustosi, ci mettono circa 14 minuti a cuocere. A questo aggiungi i tempi tecnici e umani: il cameriere che deve battere l’ordine e trasmetterlo in cucina, che sono almeno 4 minuti; poi ci siamo noi in cucina, che magari abbiamo il bollitore pieno, quindi non possiamo calare subito la pasta. Quando il piatto sarà pronto lo dovremo portare al tavolo. Ne vengono fuori almeno 25 minuti di attesa, se fai le cose perbene, cioè come le faremmo a casa. Quanti di noi, clienti italiani in Italia, riterrebbero normale aspettare 25 minuti per un piatto di pasta? Te lo dico io: ci venite a prendere in cucina coi forconi gridando vendetta. Risultato? Facciamo la doppia cottura, pre-cuocendo la pasta ore prima e quindi la pasta è meno buona, viene fuori un po’ gommosa, un po’ così. È colpa di noi cuochi che non siamo abbastanza coraggiosi o è colpa dei clienti che non capiscono? Tutte e due. I locali che ho visitato io trovano varie soluzioni a questo rebus, e sono sempre soluzioni culturali: da una parte, spiegano e parlano col cliente, perché a volte bisogna aspettare un po’ di più per avere le cose fatte bene; dall’altra ci si deve fare più scaltri. Non furbi, scaltri: senza compromettere la qualità di quello che serviamo. Inventandoci altri piatti, servendo portate da dividere come nei pranzi della domenica, conservare gli alimenti in modo moderno, e così via. Ma, ancora una volta, questa è cultura, cura del cliente, immaginazione.»

Potremmo soffermarci su almeno altre quattro o cinque questioni altrettanto profonde e stimolanti che “I conti con l’oste” mette – è il caso di dirlo – in tavola, ma in realtà rischieremmo di pregiudicare il piacere della scoperta nel corso della lettura. Pertanto lasciamo da parte i temi della tradizione, del rapporto col territorio, della famiglia, dell’artigianalità, dell’estetica culinaria. E chiudiamo concentrandomi su quella cosa là che oggi non si può non citare, purtroppo. Visto che parlare di osterie significa parlare di convivialità, di stare insieme, di accoglienza, viene da chiedersi se l’unica chiave di successo della cucina italiana del futuro possa essere il ritorno a una specie di normalità nella fruizione degli spazi pubblici, nel periodo post-coronavirus.

Con un po’ di tristezza addosso ti chiedo ancora, Tommaso: senza condivisione questa idea di tavola italiana rischia di non stare in piedi, e il modello osteria potrebbe essere la vittima numero uno nel mondo (già in crisi di suo) della ristorazione; credi anche tu che l’adombrata uscita collettiva con i separé in plexiglass non avrà fortuna, e che, in attesa di una vera riapertura senza limitazioni, se non potremo tornare a stare insieme in osteria lo faremo semplicemente tra le mura di casa? In fondo è di cucina domestica, che stiamo parlando. No?

«Il fatto è che non andiamo al ristorante per il cibo, ci andiamo per condividere uno spazio con degli sconosciuti. La ristorazione è secondo me destinata a ritagliarsi sempre più uno spazio rituale nelle nostre vite. Stava già accadendo prima. Andremo al ristorante sicuramente meno spesso, e saremo pronti a spendere di più, il che – si spera – renderà leggermente più sostenibile la riduzione di coperti. Saremo meno disposti a rimanere delusi o poco soddisfatti, diventeremo più esigenti. Impareremo, se Dio vuole, che per andare al ristorante è opportuno prenotare, pratica che in Italia rimane quasi esotica al di fuori del weekend. Soffriranno molto i luoghi impersonali che facevano grandi numeri, così come i locali centrati su un solo concetto effimero. Complice anche l’effetto nostalgia, rinascerà l’idea di “gastronomia”, nel senso del negozio dove si comprano (o si ordinano) piatti cucinati da mangiare poi a casa, ovviamente con una rinnovata attenzione e qualità. In generale, ce la faranno quei luoghi che creano naturalmente accoglienza: la materia prima della cucina sono gli ingredienti, ma la materia prima dei ristoranti sono le persone che ci lavorano, e quelle non puoi fartele spedire a casa. Il plexiglass è una cazzata.»

Nota finale: dal 17 aprile Tommaso cura la rubrica “Pentole e parole” (che riprende il format di “Tovagliette”) su Il Venerdì di Repubblica. Buona lettura.

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