La sparizioneLo strano caso di Inigo Philbrick, l’enfant prodige dell’arte che diventa un truffatore

Giovane, ambiziosissimo, geniale e spietato. Era l’astro nascente del mondo delle aste e delle gallerie, inserito nei circoli più alti e importanti, vero e proprio talento. A un certo, punto, comincia a imbrogliare i suoi clienti. E quando viene scoperto scompare nel nulla

“Untitled”, di Cecile Bart

Un mercante d’arte giovane, di talento, ambiziosissimo. Una serie di clienti desiderosa di fare affari. Un mercato che ondeggia tra esplosioni e cali. E alla fine, quando nessuno se lo aspetta, il disvelamento della truffa.

Potrebbe essere la sceneggiatura di un film (e forse lo sarà) ma al momento è la sintesi della storia di Inigo Philbrick, sorta di Mr. Ripley del mondo delle gallerie, giovane impressionante promessa che si trasforma in uno scrupoloso imbroglione, conoscitore raffinatissimo e maestro della frode, amante del jet set, del lusso, dei voli in aereo privati, degli orologi costosi («Ho appena comprato un Patek Philippe», scriveva agli amici negli anni d’oro, «adesso venderò il mio Rolex») che a un certo punto, quando il castello dei suoi artifici scricchiola, cioè a settembre 2019, scompare all’improvviso.

Dove è finito Philbrick? Se lo chiedono in tanti. Prima di tutto i suoi (ex) collaboratori, che avrebbe raggirato negli anni e che vogliono indietro i soldi e le opere, poi anche qualche giornalista (qui lo fa Oliver Franklin-Wallis, qui Jacob Bernstein). Senza esito.

A volte qualcuno, da account Instagram appena creati, invia messaggi ambigui sostenendo di essere lui. Pochi ci credono. Secondo chi lo conosce bene, come il mercante Kenn Schachter, noto anche per la sua rubrica di gossip del mondo dell’arte su Artnet, è in Australia. Altri dicono in Giappone. C’è chi allude a una “Saudi connection”, secondo cui Philbrick avrebbe «stuzzicato la gente sbagliata» e ne pagherebbe le conseguenze. Chi parla anche di oligarchi russi. La verità è che non lo sa nessuno. Per un uomo che amava apparire (eccome) al centro della scena è sorprendente notare come sia riuscito a svanire senza lasciare traccia.

Una parabola umana, certo. Ma anche la descrizione di un mondo. Inigo Philbrick nasce e cresce nel Connecticut, circondato dall’arte. Sua madre, Jane, è un’artista. Il padre, Harry, è un noto ex direttore di museo e amministratore delegato di aziende che si occupano di arte. I due si separano quando lui è adolescente.

Studia arte alla Goldsmith – scuola frequentata, ai tempi, anche da Damien Hirst, Lucian Freud e il regista Steve McQueen. Per Philbrick è il trampolino di lancio giusto: conosce Jay Jopling, il più importante gallerista d’Inghilterra e comincia a lavorare con lui, rivelando subito il suo talento e le sue ambizioni.

Giovane, sveglio, velocissimo, dal grande fascino. Sempre sul pezzo, capisce ogni volta prima degli altri quali artisti promettono di prendere quota e e acquisisce in anticipo le opere, rivendendole a peso d’oro. Diventa presto il protégé di Jopling (una consacrazione) e poi, 32 anni e quasi a sorpresa apre una sua galleria personale, che inaugura con mostre (apprezzatissime) di artisti come Joe Bradley e Sterling Ruby.

Un talento, certo. Ma anche «uno squalo» in un mondo in cui l’arte è sempre più un business, in cui i pezzi diventano strumenti finanziari e gli investimenti somigliano molto alle speculazioni.

In questo senso Philbrick non è secondo a nessuno. Una delle sue specialità è il flipping: gli investitori acquistano un dipinto intero, o delle sue quote, come se fossero azioni – spesso poco o per nulla interessati al valore artistico ma molto attenti a quello monetario – lui lo piazza, spesso a un valore superiore, per poi dividere il guadagno.

«Nel suo mestiere era il migliore», spiega Schachter. «Sapeva distinguere a un solo sguardo se un’opera d’arte valeva 2 milioni o 2,1 milioni». Questa pratica, è importante notare, fa sì che chi compra un’opera spesso non ne entri mai davvero in possesso, a volte non la vede mai. E non gli importa.

Philbrick sguazza in questo mondo. Diventa uno dei protagonisti del cosiddetto mercato secondario. Quello primario è dominato dalle grandi gallerie, spesso in contatto diretto con gli artisti: piazzano in anticipo le loro opere, le pubblicizzano, le espongono, le fanno esporre, le custodiscono.

Poi c’è quello secondario, in cui si comprano e vendono opere d’arte già esistenti. Accordi molto riservati, spesso basati su semplici strette di mano e qualche scrittura privata. Gli acquirenti restano spesso segreti, non si indaga molto sulla proprietà (anche per ragioni legali: negli Usa e in Inghilterra la legge sancisce che ha diritto anche chi acquista in buona fede), si apprezza la discrezione.

È difficile capire quando cominciano i problemi. Forse subito dopo la Brexit, con il repentino calo del mercato. Forse dopo il nuovo fidanzamento. Non è chiaro. Ma a onor del vero, va notato che Philbrick già prima aveva portato a compimento delle truffe. N

el 2016 era riuscito a convincere l’amico Aleksandr Pesko, un finanziere serbo-inglese, a comprare il 50% di un’opera del pittore italiano Rudolf Stingel, artista che Philbrick conosceva alla perfezione e le cui quotazioni sarebbero salite di lì a breve. Era il dipinto su tela di una fotografia di Picasso: dopo essere appartenuto a un oligarca russo, era tornato sul mercato. Pesko pagò 3,35 milioni di dollari.

Non sapeva che Philbrick, di lì a poco, avrebbe fatto la stessa operazione con la Fap, cioè la Fine Art Partners, società di consulenza per il mercato dell’arte di Daniel Tümpel e Loretta Würtenberger. A loro Philbrick suggerì di comprare l’altra metà del quadro su Picasso, per 7,1 milioni di dollari.

Non solo: l’anno dopo lo dava in ipoteca alla Guzzini Properties, una delle società più importanti del settore, per soli 6 milioni di dollari (in un lotto che ne valeva almeno 25). L’obiettivo dichiarato alla Fap era recuperarli all’asta.

Christie’s, assicurava Philbrick, era pronta a garantire la vendita per 9 milioni (una sorta di scommessa: se il prezzo finale è più basso, la casa d’aste si impegna a ricomprarlo per la cifra dichiarata, se è più alto si accaparra una parte della differenza) ma prevedeva di piazzarlo per 14.

E invece, nel 2019,il “Picasso” venne battuto per “soli” 5,7 milioni. Meno del previsto. Tümpel e Würtenberger rimasero delusi, ma contavano sulla garanzia di Christie’s, la quale secondo i (presunti) accordi si era impegnata a ricomprare subito il quadro. Pochi giorni dopo però, sul sito della casa d’aste, l’opera di Stingel appare come “venduta”. Cosa succede? Philbrick li rassicurò («una loro strategia interna») inviando su WhatsApp una copia dell’accordo di garanzia.

Col passare dei mesi però i soldi continuavano a non arrivare. Le comunicazioni diminuivano. I ritardi aumentavano. E fu quando cominciò a serpeggiare il sospetto, all’inizio tenue, quasi vergognoso, nelle teste dei due titolari della Fap, che finì la fortuna per il ragazzo d’oro del mondo dell’arte. Dopo essersi rivolti a Christie’s per incassare la garanzia scoprirono con stupore, che il documento era falso. «È tutto una truffa». Il quadro, venduto davvero, era stato aggiudicato al gallerista di New York Stellen Holm. I loro soldi? Spariti.

Le cose, se possibile, si erano anche complicate più di così: perché Holm aveva fatto offerte per conto di Pesko, che pure possedeva (anzi, era convinto di possedere) già metà del quadro. Un comportamento strano. Perché lo ha fatto? Lui lo spiegherà così: non fidandosi più delle qualità di venditore di Philbrick, aveva deciso di comprare tutto il dipinto. Dei 6 milioni spuntati all’asta avrebbe dato la metà, il resto toccava a Philbrick. Il problema è che dei 3,35 milioni che aveva consegnato solo 2 erano andati a Christie’s. Uno era sparito. E così anche i tre restanti, quelli dell’ex socio.

Come se non bastasse, Pesko era stato ingannato, sempre nel 2016, anche su un altro quadro. Un’opera di Basquiat che Philbrick aveva comprato per 18 milioni di dollari (Pesko ne aveva messi 9 più altri 3) e che avrebbe dovuto essere piazzata all’asta con una garanzia per 35 milioni. Stesso giochino di prima: documenti finti ma soldi (spariti) veri. In più Philbrick aveva venduto di nascosto la metà del dipinto a un altro finanziere. Per giunta, un amico di Pesko.

Queste sono solo alcune delle sue complicate e temerarie operazioni: schemi Ponzi, mezzi accordi, vere e proprie fughe e inganni. Nei momenti peggiori, a cominciare dal 2017, Phlbrick si procura cash ipotecando quadri. All’inizio i suoi. Poi, con molta disinvoltura, anche quelli di altri (come già detto, il proprietario non è il possessore: mette i soldi ma non per forza desidera appendersi in salotto il quadro acquistato, che invece resta nelle mani del dealer). Come è semplice da immaginare, nel 2019, impegna anche lo Stingel e il Basquiat.

È un crescendo continuo. Le voci che girano dicono che, appunto, finisce per «stuzzicare la gente sbagliata». Non si sa. Quando viene scoperto scompare, lasciando dietro di sé scandali e litigi tra i proprietari. I tentativi di rintracciarlo vanno a vuoto.

Anche perché, al momento, non c’è nessuna incriminazione nei suoi confronti. Anche questa, a suo modo, è una caratteristica del mondo dell’arte. La discrezione viene prima di tutto. E una causa contro Philbrick, che già ha compromesso la sua reputazione e si è giocato una carriera, non sembra valere la pena.

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