VirtuosismiLa pazienza sarà veramente la virtù degli chef?

Un incontro virtuale tra stelle offre l’occasione di una riflessione sul futuro del mestiere. Ecco che cosa ne pensano Uliassi, Klugmann, Oldani, Cuttaia e Negrini. Ristoratori come barche in mezzo al mare, con la necessità di ripartire dall’Italia

Totò lo rese universale recitandolo in una sua poesia: “Ccà dinto, ‘o vvuo capi, ca simmo eguale?”. Un messaggio trasversale, quello contenuto ne ‘A Livella, che ci rende tutti uguali secondo il Principe De Curtis, almeno di fronte la morte. Ma questo vale anche in guerra o se si dovesse abbatte su di noi una calamità naturale, e lo siamo stati anche nel bel mezzo di una pandemia. Tanto uguali che nemmeno una macchina imprenditoriale della ristorazione come quella dell’Eleven Madison Park di New York sa se riuscirà a ripartire, mentre c’è chi come René Redzepi trasforma il Noma di Copenhagen in un burger bar, almeno prima di riorganizzare la riapertura da fine dining.

Un livellamento che non ha, però, appiattito i pensieri e le riflessioni dei grandi cuochi in questi mesi impegnati a reinventarsi, a saper attendere, ad ascoltare il proprio territorio. Tra i più saggi c’è Davide Oldani che, se 17 anni fa ha pensato di investire sul proprio territorio fidelizzando le persone di San Pietro, poi di Cornaredo e Milano, fino a raggiungere una clientela nazionale e internazionale, adesso sceglie di portare pazienza. «Prendere le possibilità più vicine e le persone che abitano nella provincia milanese. Il nostro miglior cliente sarà quello che saremo noi stessi, perché anche noi ristoratori ci sediamo a tavola. Dobbiamo lavorare per renderci più forti e comunicare le nostre prossime vacanze in Italia».

Di potenza dei luoghi parla anche Mauro Uliassi, nel forum virtuale organizzato da Vento&Associati, che ricorda le Marche come la seconda regione più bella d’Italia per il 2020 secondo Lonely Planet. La metafora che utilizza è un’immagine marina «siamo tutti quanti su una barca dentro lo stesso mare ma ognuno naviga a vista a suo modo». Invita a fare un’attenta fotografia della realtà in cui ciascuno è posizionato per ipotizzare un cambiamento, e se un molti hanno deciso di rimandare l’apertura è perché «a nessuno è stato detto come fare. Un professionista, però, se conosce a fondo il proprio lavoro non ha timore di nulla. Il desiderio del cibo potrà cambiare, ma non potrà essere tolto definitivamente, dal piacere del convivio da fine dining allo street food. L’adattamento sarà una risposta: ad esempio, noi veniamo dal basso e molto prima delle 3 stelle avevamo una trattoria di fritto e di arrosto. Ecco, se puoi suonare qualsiasi tipo di musica, suoni quella che puoi suonare in quel momento specifico».

Una diversificazione che per Antonia Klugmann viene veicolata dall’osservazione della realtà attraverso un processo nuovo e creativo che «non può colpevolizzare chi si è ritrovato scoperto per investimenti che non potevano prevedere la pandemia. Bisogna trovare un modello diverso per ciascuno. Nel mio caso essere così radicata sul territorio mi ha permesso di creare un brand nuovo con il quale ho avvicinato una serie di clienti. L’alta cucina potrebbe sfruttare questa comunicazione: ad oggi manca una comunicazione diretta a un pubblico ampio. Forse sta proprio qui la falla, nell’incapacità degli chef di comunicare in maniera semplice il nostro lavoro, perché la qualità non significa per forza lusso».

Un ritorno alla semplicità auspicato dal grande Gualtiero Marchesi tra i primi a fare cultura del cibo, considerando la cucina stessa cultura. La sua Fondazione, che ha l’obiettivo di promuovere e divulgare la cucina italiana, si mette a disposizione della ristorazione partendo dai valori marchesiani, di cui la semplicità è pilastro.

La cucina italiana è anche territorio e microclima, una sintesi perfetta che si ritrova sulla tavola di Pino Cuttaia, sulla quale si pone l’accento sull’importanza della filiera, perché il mestiere di cuoco è un po’ una sintesi di varie attività, dal piantare semi al contatto con il produttore. Un concetto che Marchesi espresse nel suo decalogo, ricordando che quello del cuoco è “un mestiere o meglio ancora è un servizio, un ministerium”. Un’attività a carattere prettamente manuale che nei mesi del lockdown ha coinvolto come amatori sempre più persone. «Mi auguro che l’impegno e il costo di ogni piatto cucinato a casa faccia comprendere realmente il valore del tempo che noi mettiamo in ogni piatto e capire di più il nostro sacrificio. Solo allora il nostro mestiere avrà il valore che sempre abbiamo voluto comunicare agli altri. La ristorazione è quindi la sintesi di tanti mestieri e di una filiera che dobbiamo sostenere».

L’ha comunicato eroicamente Giorgio Armani quando ha annunciato che avrebbe spostato le sfilate di alta moda da Parigi a Milano. «È il bignami dell’imprenditoria italiana e un esempio virtuoso di come comunicare l’Italia al mondo, spendendo denaro all’interno del nostro territorio. La ristorazione è un po’ come l’alta sartoria, in un tessuto di imprenditorialità tenuto vivo dagli imprenditori nel proprio atelier, pardon, ristorante».

A esprimersi è Alessandro Negrini che fa parte di quella generazione successiva e si ritiene fortunato «perché abbiamo avuto dei maestri, io stesso mi ispiro molto alla filosofia commerciale di Davide (Oldani). Cominciamo a guardare a questi professionisti che sono degli ottimi imprenditori, per trovare ispirazioni anche a livello locale e soluzioni in termini economici».

Tutto bene fin qui. E sebbene la potenza delle parole cerchi di rendere l’emozionale essenziale, riusciremo veramente a emozionarci ancora al ristorante? Un sentimento da non sottovalutare è la “paura” del cliente che emerge da un’indagine condotta da The Fork e TripAdvisor e viene tripartita tra: timore che le precauzioni previste non siano sufficienti, l’ingerenza delle restrizioni sulla piacevolezza della serata e un problema di portafoglio.

Considerazioni che trovano terreno fertile nelle parole di Massimiliano Pogliani, amministratore delegato di illy Caffè, che afferma: «alla fine ci sarà una selezione naturale e chi avrà mantenuto una mentalità lungimirante baserà la sua offerta sulla qualità di reinventarsi. Bisogna soffermarsi a pensare “ma quando riapriamo il consumatore tornerà da noi?”; a come riuscire ad attirare clientela facendole respirare un clima di sicurezza e fiducia. La qualità dell’offerta e del luogo toglierà spazio all’improvvisazione».

Ma alla fine arrivano i paradossi, come rendersi conto che la ristorazione, quella che smuove migliaia di avventori da tutto il mondo, una fetta fondamentale dell’economia del nostro Paese, non sia inserita nel pacchetto turismo. «Il covid è stata l’ultima vera occasione affinché la politica si renda conto che chi fa ristorazione fa prodotti economici. Qui c’è una lotta da fare: riuscire ad avere una visione della ristorazione italiana. Per farlo ci vogliono Associazioni forti», tuona Roberto Calugi, direttore generale FIPE. Perché la ristorazione è (dovrebbe) essere un tema politico, ma questa è un’altra battaglia ancora tutta da combattere.

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