“The Last Dance” è il fenomeno televisivo del momento. La docu-serie di Netflix racconta la carriera di Michael Jordan e in particolare la stagione 1997/98 dei Chicago Bulls, quella del secondo three-peat, la vittoria terzo titolo consecutivo nel campionato di pallacanestro più difficile del mondo: la Nba.
Le telecamere entrano nello spogliatoio di quella formazione leggendaria per raccontare trame, sottotrame e intrighi di un’annata storica, in qualche modo unica, rivelando alcuni dettagli meno conosciuti al pubblico di massa: come il carattere spigoloso di Jordan, già una delle chiavi di lettura più coinvolgenti e discusse di tutta la serie.
Lo show non fa nulla per nascondere che per His Airness (soprannominato così dalle Air-Jordan, la marca di scarpe che dal 1984 la Nike gli ha dedicato) tutto viene declinato in termini di successo sportivo. Anche i rapporti personali con compagni di squadra e allenatore finiscono per appiattirsi sulla dicotomia: può aiutarmi a vincere/non può aiutarmi a vincere. «Era un vero rompicoglioni», dice Steve Kerr, suo compagno di squadra e allenatore oggi dei Golden State Warriors.
Nell’ottavo episodio della serie ricorda un allenamento in cui si beccò un pugno su un occhio solo perché aveva contestato la marcatura aggressiva e le prese in giro (in gergo cestistico trash talk) di Jordan.
È il risultato di una personalità ostinata che ha avuto due guide nella sua vita: il padre e l’etica del lavoro, coltivata fino all’ossessione. Il regista Jason Hehir ha raccontato in una recente intervista a “The Athletic” che lo stesso MJ non avrebbe voluto contribuire alla produzione di “The Last Dance” perché «temeva che quel materiale potesse rappresentarlo come il cattivo della storia».
Una conseguenza quasi inevitabile che viene affrontata in prima persona da Jordan in uno dei momenti più drammatici della serie: «Vincere ha un prezzo – dice in una delle tre interviste fatte tra il 2018 e il 2019 – e la leadership ha un prezzo. Una volta che entravi in squadra c’erano certi standard a cui volevo che si giocasse, e non avrei accettato nulla di meno».
I lati oscuri del carattere di Michael Jordan emergono anche in una passione malcelata per il gioco d’azzardo che solo gli incredibili risultati conquistati sul campo e i guadagni fuori dal rettangolo di parquet hanno contribuito a nascondere – durante la carriera – e a far dimenticare – dopo il ritiro.
Jordan avrebbe iniziato a scommettere quando era ancora solo un teenager, ai tempi del liceo: il libro di Roland Lazenby “Michael Jordan: The Life” racconta di una lettera in cui un giovanissimo MJ si diceva felice che la sua fidanzata dell’epoca ripagasse un debito nei suoi confronti, contratto dopo aver perso una scommessa.
Al college ha continuato a giocare, ma soltanto piccole somme. Poi dal 1984, quindi dal suo ingresso nella Nba, le cifre hanno iniziato a gonfiarsi: in alcune scene della docu-serie lo si vede puntare con gli uomini della sicurezza all’interno del palazzetto di Chicago, lanciando monetine a un muro, o nelle partite a carte con giornalisti e compagni di squadra.
Il caso più eclatante, però, è probabilmente quello che coinvolge Richard Esquinas, ex partner di golf di Jordan. In un libro pubblicato nel 1993 – “Michael and Me: Our Gambling Addiction… My Cry for Help” – Esquinas aveva ammesso di essere creditore nei confronti di MJ di una cifra superiore al milione di dollari.
In quel momento la reputazione del giocatore più dominante del panorama Nba aveva subito una flessione che oggi, a quasi trent’anni di distanza, è impercettibile, mascherata dall’alone mistico che ha avvolto la sua figura. Ma all’epoca lo aveva costretto a farsi intervistare dal giornalista e amico Ahmad Rashad prima di una gara delle Nba Finals del 1993 ripresa anche in The Last Dance.
«Non ho un problema con le scommesse, per me è un hobby, se fosse un problema sarei al verde. I media hanno ingigantito la cosa: quando mi sarò ritirato, il basket sarà l’unica cosa che si ricorderanno di me», aveva detto indossando gli occhiali scuri per tutta l’intervista. Una scelta che attirò critiche per la mancanza di empatia di Jordan.
Da quando la serie di Netflix ha riaperto il vaso di Pandora della passione quasi maniacale di MJ per le scommesse, questa è diventata uno degli argomenti di discussione principali per spettatori e appassionati. Qualche giorno fa l’ex playmaker della Nazionale italiana e attuale allenatore della Dinamo Sassari Gianmarco Pozzecco ha raccontato un simpatico aneddoto nel corso di una diretta Instagram.
«Era l’estate del 2001 – dice Pozzecco – e stavo partecipando a un training camp a Chicago. Jordan assiste e a fine partita uno dei giocatori, Jamal Crawford (oggi un veterano Nba) lo sfida a una gara di tiri da 3 scommettendo mille dollari. Ovviamente vince Jordan». La storia però prosegue: Crawford non ci sta, rilancia e mette sul piatto 5mila dollari. Si rigioca, ma stavolta vince il ragazzino.
Allora MJ fa sul serio. «Lo guarda e punta la sua Ferrari in cambio della Mercedes di Crawford. Michael non sbaglia nemmeno un tiro, vince, poi con un cacciavite stacca dalla macchina di Crawford la targa personalizzata con il suo nome. Gliela tira addosso e se ne scappa in Mercedes».
Certe sfumature caratteriali di Jordan – il leader ambizioso, competitivo, ma anche estremamente esigente – non emergono soltanto in campo, nello spogliatoio, o nel gioco d’azzardo. MJ ha dovuto reggere il peso di una carriera da icona dello sport mondiale cui è stata attaccata fin dall’inizio l’etichetta larger than life. E ha saputo e voluto valorizzare quel successo traslandolo fuori dal campo, tirando su un impero dello streetwear (tuta e scarpe sportive) che oggi ha uno dei brand più riconoscibili del globo, quello con la sua silhouette.
È soprattutto grazie a lui se oggi la Nba è una delle leghe sportive più famose e seguite al mondo, vista in cinque continenti. Status che non aveva mai avuto prima, nonostante giocatori iconici come Wilt Chamberlain, Kareem Abdul-Jabbar, Larry Bird e Magic Johnson.
È stato l’arrivo di Michael Jordan a stravolgere il mondo del basket americano, elevandolo a marchio pop spendibile a qualsiasi latitudine: anche il film Space Jam, uscito nel 1996, ha contribuito a coprire con una patina di glamour un personaggio che invece nella sua quotidianità poteva essere particolarmente scontroso. «Mi punzecchiava per tirare fuori il meglio di me, io non gli rispondevo perché sono una persona tranquilla», dice Scott Burrell nel settimo episodio di “The Last Dance”.
Nella docu-serie di Netflix viene citata anche una frase di Jordan divenuta celebre, «Republicans buy sneakers, too», anche i repubblicani comprano le scarpe, che da circa trent’anni è diventata il manifesto del suo scarso interesse per l’impegno politico e sociale. È un altro tema toccato – seppur brevemente – da “The Last Dance”
Una frase che sarebbe stata pronunciata da Jordan nel 1990, al momento di declinare la richiesta del Comitato Nazionale Democratico, che in piena campagna elettorale per il Senato in North Carolina (MJ è cresciuto lì, nella città di Wilmington) gli avrebbe proposto di schierarsi a favore del candidato afroamericano Harvey Gantt.
Su questo rifiuto, e su questa frase,sono stati tracciati i contorni di una figura atipica nel panorama sportivo americano. Jordan è il miglior giocatore della sua generazione, e negli Stati Uniti gli atleti, soprattutto gli afroamericani, sono storicamente inclini a schierarsi politicamente e usare la loro visibilità per diventare un megafono per chi non ha voce.
C’è un fil rouge che collega Jackie Robinson – giocatore di baseball degli anni ‘40, il primo afroamericano nella Major League Baseball (Mlb) dell’epoca moderna – a Muhammad Ali e Arthur Ashe – che lottarono per i diritti civili per tutta la carriera -, fino ai contemporanei LeBron James e Colin Kaepernick che si definiscono «more than an athlete», più di un semplice atleta. Di mezzo ci sono gli anni Novanta, e il giocatore simbolo di una generazione che durante la carriera ha scelto di non schierarsi.