Cosa hanno in comune eBay, Alibaba, Uber, Airbnb, Amazon, Booking? Una cosa sola: sono tutti marketplace. I marketplace sono piattaforme online che mettono in contatto due parti: chi vuole vendere incontra subito chi vuole comprare, bypassando gli intermediari. I marketplace non possiedono i beni che propongono, lavorano con software e algoritmi e hanno sovvertito la tradizionale catena dalla produzione al consumo grazie alle autostrade della Rete. Vuoi una cosa? Ti arriva direttamente a casa, senza mediazioni: il marketplace è insieme il tuo negozio, commesso, spedizioniere, garante virtuale.
Anche Facebook, Google, Youtube, Tencent, WhatsApp sono marketplace. Non vendono prodotti: apparentemente li regalano. In realtà acquisiscono le nostre interazioni intellettuali ed emotive per rivenderle alla pubblicità. Facebook e Google, nello specifico, sono due editori, seppure indiretti: vivono delle notizie prodotte dai giornalisti ma non creano alcun contenuto. Non hanno motivo di farlo: i giornalisti e gli editori d’antan fanno a gara a regalar loro i propri prodotti.
A vent’anni dalla rivoluzione digitale, non hanno ancora realizzato che così buttano via il loro lavoro (a proposito, avete mai visto un droghiere mettere uno spillo gratis in Rete, aspettando il ritorno di investimento o i benefici della brand awareness?). Eppure questa sarebbe una buona occasione (l’ennesima) per fare i conti con l’Internet, e provare a cambiarlo.
Il giornalismo è una slavina.
La pandemia, e la conseguente quarantena, hanno portato a un inevitabile aumento del traffico in Rete e della domanda di informazione, con picchi che arrivano a più duecento per cento. Già questo dato potrebbe indicare una grande opportunità per l’intera categoria dei giornalisti, e portarli a riflettere sul presente delle professione: dal momento che cresce la domanda di notizie, approfondimento e “verità” online, diventa centrale la credibilità e la fiducia riposta nei mass media, urgente la necessità di vincere la battaglia contro il virus delle fake news, necessario setacciare i dispacci flash non verificati e le veline abilmente manipolate dagli spin doctor della politica (leggi Rocco Casalino).
Sappiamo che l’informazione online è il flusso di una comunicazione che procede da diverse fonti all’opinione pubblica attraverso alcuni passaggi che Noam Chomsky ha rappresentato con una piramide: ad alimentare il flusso – come in una slavina – agiscono, in ordine di importanza, le istituzioni, le agenzie di stampa, i media e lo stesso pubblico, che è diventato produttore incontrollato di contenuti.
Tutti contribuiscono a creare “notizie” e a buttarle subito in Rete, seguendo l’istinto più che la ragione e inseguendo la velocità per non prendere il classico “buco” (che non esiste più, in realtà: le notizie in sé sono una commodity). Viviamo di milioni di “flash” o “frame” incontrollati, lanciati dalla cima della piramide come palle di neve che si autoalimentano durante la caduta, dove a guadagnare è soltanto chi sta a valle (il marketplace) che poco si cura di sapere chi abbia generato il “lancio” a monte, né se sia o meno attendibile ciò che trasporta.
Di una notizia non conosciamo mai con certezza chi l’ha lanciata, e per questo non possiamo riconoscere un compenso all’autore, nel bene e nel male, la paternità dell’“opera” – mediante il “diritto d’autore” appunto. Senza paternità certa è impossibile mettere un filtro alle fake news, distillare la portata reale di un contenuto, riconoscere al giornalista “garante della qualità” una royalty per il suo lavoro.
Sul diritto d’autore dei giornalisti si discute da tempo, purtroppo invano. Ha compiuto un anno il 17 aprile scorso la contestatissima “Direttiva europea sul diritto d’autore nel mercato unico digitale”, il (tardivo) tentativo dell’Ue di definire i confini della proprietà intellettuale sul web.
Nello specifico, all’articolo 13 la Direttiva prescrive che i contenuti caricati online debbano essere verificati attraverso «filtri preventivi, più o meno simili alla funzionalità Content ID di YouTube che, tramite un riconoscimento automatico dei video, verifica se il filmato caricato ha contenuti protetti da copyright e, nel caso, lo elimina dal sito».
È il punto più contestato, perché secondo i critici porterebbe alla trasformazione di Internet da piattaforma aperta a strumento sottoposto a verifiche. Può darsi: ma è questa la forca caudina sotto cui si deve passare. Andrea Martella, sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega all’editoria, in una recente intervista a La Repubblica conferma: «L’Italia avrà presto la sua legge sul copyright. Ogni giorno di ritardo – spiega al quotidiano – sono risorse in meno per la filiera dell’editoria, non solo editori, ma giornalisti, scrittori, edicolanti, cartiere, tipografie, da cui dipende la qualità di una democrazia».
Recentemente l’autorità antitrust australiana (l’Australian Competition and Consumer Commission) ha deciso di scrivere un nuovo “Codice” per obbligare i giganti della Rete a condividere con gli editori i ricavi ottenuti veicolando le notizie sul web. Ma se anche Google e Facebook si decidessero a pagare, resterebbe il problema di capire “chi” deve passare all’incasso. Perché se la notizia è una palla di neve gettata a capofitto da una montagna, in un servizio che può essere copiato, incollato, replicato, “riprodotto”, direbbe Benjamin, senza nessuna conseguenza per chi lo copia, tutti si farebbero subito padri.
Serve un “cuile”
Occorre una soluzione: il marketplace! Come hanno cercato di risolvere il problema i cantanti e i musicisti? Hanno tentato una carta che si chiama Vevo: una piattaforma dove le major – che rappresentano i principali artisti sulla scena mondiale – inseriscono i brani dei loro assistiti “prima” di regalarli all’oceano senza padri e diritti di Internet.
Con Vevo i musicisti stanno provando a tutelare il loro diritto d’autore, che già con Napster sembrava perduto, recuperando le royalty dalla raccolta pubblicitaria di Youtube. E’ ciò che manca agli editori: un Vevo per i giornalisti. Una piattaforma univoca – un “Cuile”, in sardo vuol dire ovile: il luogo dove il gregge trova riparo – dove ogni giornalista professionista potrà registrarsi e inserire il suo pezzo, che verrà tracciato da una catena di blockchain (letteralmente “catena di blocchi”) una struttura dati condivisa e immutabile definita come un registro digitale in cui il contenuto una volta scritto non sarà più né modificabile né eliminabile, a meno di non invalidare l’intera struttura.
Grazie a queste caratteristiche, l’articolo convertito in blockchain sarà considerato una fonte sicura, affidabile, trasparente, eliminando le fake news; si potranno facilmente zoomare e mettere a nudo le veline; si potrà risalire alla fonte e all’autore e soprattutto far sì che Google e Facebook riconoscano una royalty per ogni pezzo scritto, pena la chiusura del rubinetto dalla fonte.
La soluzione è dunque un marketplace dell’editoria, che potrebbe rimettere il giornalista al centro dell’informazione e gli editori più accorti al centro del mercato. Aggregando tutte le firme, diventerebbe in un giorno il più ricco e autorevole quotidiano d’informazione.
Per realizzarlo occorrerebbe il coinvolgimento di almeno un grande gruppo editoriale e l’esborso di una notevole quantità di denaro. L’operazione potrebbe rivelarsi un ottimo affare, in termini economici ma anche sociali, consegnandoci un futuro migliore. «Buoni giornali, buone nazioni», diceva Gioberti.