Il rischio più insidioso dell’attuale fase politica, caratterizzata dallo scontro tra populisti al governo e populisti all’opposizione, più ancora che l’incanaglimento, è l’assuefazione. Rischio evidente, sul piano fattuale, se guardiamo a come l’opinione pubblica di sinistra si è già serenamente abituata a convivere con tutti i provvedimenti bandiera del governo gialloverde (tanto da far apparire l’idea di offrire agli immigrati sei mesi di permesso per continuare a raccogliere i nostri pomodori, in piena pandemia, come una specie di rivoluzione). Ma quello che dovrebbe preoccuparci maggiormente è forse il piano politico-culturale, linguistico, persino estetico.
Il problema fondamentale, che condividiamo con gli Stati Uniti di Donald Trump e con la Gran Bretagna di Boris Johnson, è la naturale tendenza a convivere con l’assurdo che ci circonda, a scenderci a patti, persino a introiettarlo, fino a non distinguerlo più dalla normalità.
Il primo governo Conte aveva perlomeno il carattere della novità. Allora, se non altro, era ancora possibile dirsi stupiti di una sottosegretaria all’Economia come Laura Castelli, che il 27 dicembre 2018 difendeva l’orrenda scelta di aumentare la tassazione sul terzo settore dichiarando: «Noi tassiamo i profitti delle no profit, mica tassiamo i soldi della beneficenza». I profitti delle no profit, testuale. Nel secondo governo Conte Laura Castelli è stata promossa viceministro all’Economia, e nessuno ci ha trovato niente di strano.
Nel tentativo di contrastare la tremenda pressione dell’abitudine, con l’aiuto di appunti e articoli di allora, posso ricostruire i principali temi al centro del dibattito ai tempi del primo governo Conte. In rapida rassegna: opportunità e svantaggi della candidatura di Lino Banfi all’Unesco, avanzata dal vicepremier Luigi Di Maio; stabilità emotiva e prestanza fisica del presidente della Repubblica francese, a giudizio del sottosegretario agli Affari esteri, Manlio Di Stefano, affetto dalla «sindrome del pene piccolo» (post su Facebook, 26 gennaio 2019); origini storiche e conseguenze internazionali dell’adozione del franco Cfa (o franco coloniale) in Gabon, Ciad, Guinea equatoriale e una decina di altri paesi africani; ruolo politico e influenza economica, secondo il sottosegretario per gli Affari europei, Luciano Barra Caracciolo, dei «criceti di Satana», i quali «col loro globalismo irenico promuovono il tribalismo malthusiano omicida mirando a pulizie etniche su scala mondiale per assecondare i bisogni edonistici di élite sociopatiche» (tweet del 23 dicembre 2018); l’articolo 25 del decreto Genova, intitolato «definizione delle procedure di condono», e se esso potesse essere definito un condono. Senza dimenticare, naturalmente, l’Italia alla vigilia di un «nuovo boom economico, come negli anni Sessanta» divinata da Luigi Di Maio l’11 gennaio 2018.
Va detto che anche allora, quando Di Maio si domandava se per lo sviluppo della Guinea equatoriale sarebbe stato meglio un regime monetario a cambi flessibili o a cambi fissi, l’accusa che riceveva dall’opposizione di Fratelli d’Italia non era di occuparsi del sistema monetario della Guinea nel tempo in cui avrebbe dovuto occuparsi dello sviluppo industriale dell’Italia, ma di aver rubato l’idea a loro.
La differenza, non da poco, è che allora esisteva però anche un’altra opposizione, quella del Partito democratico, che aveva almeno la forza di definire assurdo l’assurdo e ridicolo il ridicolo. Oggi, sfortunatamente, il Pd è venuto meno persino a questa minima, eppure essenziale, funzione segnaletica.
Così siamo rimasti soli di fronte all’abisso. E anche i pochi che non vogliono rassegnarsi a scendere nel gorgo muti, faticano a trovare le parole. Il tedesco possiede termini come Fremdschämen, la «vergogna per gli altri», quella che si prova di fronte alle inadeguatezze altrui; Weltschmerz, il «dolore del mondo», quello che ci sovviene all’improvviso, ad esempio, leggendo Leopardi; Fernweh, la «nostalgia della lontananza», che era forse il sentimento risonante al fondo di quella famosa frase di Rimbaud: «La vita è altrove».
A noi servirebbe un’originale combinazione di tutti questi termini – una sorta di Fremd-Welt-Fern-schämen-schmerz-weh – per descrivere quell’impasto di vergogna per gli altri ma anche per noi stessi, ilarità e depressione, e soprattutto straziante nostalgia di qualunque altro tempo e luogo, che ci coglie leggendo, ad esempio, una dichiarazione come la seguente: «Nel corso del lungo colloquio privato abbiamo richiamato il rispettivo impegno che stiamo portando avanti per realizzare, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, un ampio disegno riformatore della comunità in cui operiamo» (15 dicembre 2018 – post sulla pagina facebook di Giuseppe Conte con cui il premier commenta il suo incontro con papa Francesco). Per non ricordare ancora una volta il suo increscioso discorso celebrativo dell’8 settembre 2018.
Forse l’unico modo per resistere all’omologazione, alla pressione sociale che spinge irresistibilmente verso l’accettazione del grottesco come nuova normalità, come lessico condiviso, come unica lingua comune possibile, sta nell’ostinato lavoro di documentazione di ogni sua manifestazione, nello sforzo incessante di segnalarne ogni emersione, senza mai smettere di denunciarlo come tale. Forse bisognerebbe stilare una classifica, e tenerla costantemente aggiornata.
Naturalmente non si tratta solo di Giuseppe Conte, e nemmeno, onestamente, soltanto del Movimento 5 stelle. Già con le dichiarazioni del ministro Francesco Boccia si potrebbe riempire un’intera hit parade, dalle parole contro le imprese «annebbiate dal dio denaro» al suo indimenticabile appello: «Chiedo alla comunità scientifica, senza polemica, di darci certezze inconfutabili» (doppietta messa a segno nella stessa intervista al Corriere della sera del 13 aprile 2020).
E poi la vibrante invettiva all’Aria che tira: «Se un ragazzo, senza linee guida Inail, è un dipendente di un bar e porta un caffè su una panchina, sta commettendo un reato» (6 maggio 2020). Anche se, personalmente, considero imbattibile l’intervista all’Huffington Post del 19 settembre 2019, dal titolo: «Conte è il nostro Bearzot» (il premio della critica, sezione sincretismi, dovrebbe andare però all’incipit di quella rilasciata al Corriere della sera il 16 dicembre 2019: «Sarò gandhiano, porgerò l’altra guancia»).
Non proseguirò oltre con tutti gli esempi che si potrebbero trarre dalle quotidiane dichiarazioni di Danilo Toninelli, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. O di quasi tutti gli esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia. E ormai, come si è visto, anche di buona parte del Partito democratico. Non lo farò perché questo duro compito ha una evidente controindicazione.
L’esposizione prolungata a un ambiente in cui sia stato sospeso il principio di non contraddizione è l’equivalente psicologico di un’esercitazione in assenza di gravità: è un’esperienza estrema, che non può essere portata avanti senza opportuno addestramento, e comunque non oltre un certo limite. Per quanto possiamo aggrapparci al filo della nostra razionalità, la tempesta di deprimenti assurdità a cui siamo costantemente esposti rende necessario il contributo di tutti. Un po’ per uno, non fa male a nessuno.